Attualità
05/06/2012

Alcune considerazioni sui suicidi dei malati di cancro

L’articolo di Emanuele Crocetti et al. (pubblicato su questo numero alle pagine 83-87) presenta l’andamento dei suicidi neimalati oncologici in Toscana, rilevando una riduzione significativa dei tassi di suicidio nel trentennio 1985-2005. Gli autori suggeriscono la possibilità che la riduzione del fenomeno sia dovuta in parte all’introduzione delle cure palliative che la regione Toscana ha istituito e potenziato, soprattutto negli ultimi anni. Oltre che nei dati presentati, che confermano a livello italiano quanto già osservato in diversi Paesi, l’interesse dell’articolo sta in alcune considerazioni che gli autori propongono o implicitamente suggeriscono.

I dati presentati evidenziano la riduzione del fenomeno tra i malati considerati nel loro complesso, ma la riduzione è maggiore negli uomini e nei malati di tumore a prognosi buona o intermedia,mentre il tasso di suicidi persiste con identica intensità in tutto il periodo considerato, tra i pazienti di tumori a cattiva prognosi, con pattern temporale analogo a quello osservato in precedenza, cioè con unmaggior numero di casi nel primo anno dalla diagnosi.

È lecito quindi ritenere che la causa principale della diminuzione osservata stia soprattutto nei mutamenti del quadro epidemiologico, che ha visto in questi trent’anni ridursi l’incidenza di alcuni tumori a prognosi infausta (polmone nei maschi, stomaco in entrambi i sessi) emigliorare la prognosi di altri ad alta frequenza (prostata, mammella). È quindi diminuita la proporzione di ammalati di tumore a bassa sopravvivenza, che secondo i dati presentati risulta essere il principale determinante della scelta del suicidio, insieme con la classe di età (55-64 anni). Ci si può chiedere allora se l’introduzione delle cure palliative, così come sono state strutturate in quelle regioni virtuose che, come la Toscana, le hanno volute e organizzate, sia sufficiente di per sé a prevenire la scelta estrema del suicidio. Gli stessi autori ritengono di no, e individuano il momento della comunicazione della “cattiva notizia” della diagnosi infausta e il periodo immediatamente successivo a essa come le situazioni di massimo rischio, in cui potrebbero essere di utilità i servizi di psiconcologia. Vengono spontanee alcune considerazioni.

  • La prima è che sia improprio scegliere il suicidio come possibile outcome su cui valutare, anche indirettamente, l’efficacia delle cure palliative. Pare probabile infatti che una decisione così definitiva che, come affermano gli autori, ora come prima riguarda un numeromolto ristretto di soggetti, trovi radici nella struttura profonda della persona, là dove sembra difficile che un intervento tecnico anche di buona qualità possa risolvere nodi irrisolti, solitudini non raggiunte nemmeno da chi è più prossimo o possa colmare l’improvviso vuoto di prospettive di una vita altrimenti piena di progettualità. Le cure palliative hanno la potenzialità di migliorare la qualità della vita deimalati a cattiva prognosi e potrebbero migliorarla in modo così consistente da essere in grado di ridurre anche l’ideazione del suicidio da parte di quei pazienti che si avvertono smarriti davanti alla prospettiva del dolore, di un percorso non guidato nella malattia, ma che difficilmente avrebbero tradotto l’idea in azione. Su questo, su quanto le cure palliative siano efficaci a preservare la salute psichica, oltre che a controllare il dolore e a conservare il più possibile un’accettabile performance fisica, occorre anche che in Italia si produca della buona ricerca, esigenza già espressa su E&P da un editoriale di Miccinesi del 2010.1
  • La seconda è se la psiconcologia non debba di fatto far parte dell’assistenza fornita dalla cure palliative e se non sia utile che l’assistenza palliativa inizi precocemente, graduando gli interventi secondo le condizioni dei pazienti, come suggerisce la letteratura.2
  • Infine l’articolo di Crocetti et al. rimanda implicitamente al tema delle cure di fine vita, quelle relative agli ultimi giorni, che dovrebbero essere parte integrante delle cure palliative ma che per le implicazioni etiche e politiche sono considerate cosa a sé e per carenza delle prime sono di fatto spesso affidate ai medici della struttura in cui avviene il decesso (prevalentemente MMG e medici ospedalieri, raramente medici di hospice): non è noto se la certezza di poter disporre della propria vita nella sua fase finale sarebbe in grado di ridurre i suicidi nei malati di patologie con prognosi infausta, ma questa certezza potrebbe concludere con dignità un percorso difficile.

Per approfondire l’argomento leggi anche:

  • Miccinesi G, Puliti D, Paci E. Cure di fine vita e decisioni mediche: lo studio ITAELD. Epidemiol Prev 2011; 35(3-4): 178-187. In questo articoli gli autori analizzano come i medici italiani accompagnano alla morte i loro pazienti.
  • Costantini M, Beccaro M, Di Leo S. Migliorare la qualità delle cure di fine vita. Un cambiamento possibile e necessario. Epidemiol Prev 2011; 35(3-4): 229-233. In questo intervento gli autori riflettono sulla necessità del miglioramento nella qualità delle cure di fine vita.

Bibliografia

  1. Miccinesi G. Assistenza alla fine della vita: monitoraggio e clinical pathways. Prospettive in Italia e in Europa. Epidemiol Prev 2010; 34(4):132-133.
  2. Temel JS, Greer JA, Muzikansky A et al. Early palliative care for patients with metastatic non–smallcell lung cancer. N Engl J Med 2010; 363:733-742.
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