Articoli scientifici
10/08/2010

Aspettative di vita, lavori usuranti ed equità del sistema previdenziale. Prime evidenze dal Work Histories Italian Panel

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Introduzione

I regimi previdenziali sono oggetto di importanti tentativi di adeguamento in gran parte dei Paesi sviluppati, a fronte delle questioni di sostenibilità di lungo periodo poste dall’invecchiamento della popolazione e di regole che, nel caso dei sistemi a ripartizione come quello vigente in Italia prima delle riforme degli anni Novanta, pongono talvolta anche importanti questioni di equità distributiva. Questo processo decisionale, nel nostro Paese, risulta particolarmente disinformato dal punto di vista degli aspetti di salute, se non nelle rare occasioni in cui questa viene utilizzata come argomento strumentale per sostenere la necessità di deroghe a misure restrittive sull’età pensionabile, per esempio in occasione della discussione sui lavori usuranti. Una delle variabili cruciali che dovrebbe informare la discussione è la speranza di vita degli individui: è questa infatti che regola per quanto tempo un individuo riceverà i benefici dal sistema pensionistico a fronte dei contributi che ha versato durante la sua carriera lavorativa. Uno dei limiti principali della riforma Dini, da questo punto di vista, consiste nell’aver considerato solo i fattori determinanti di tipo demografico delle aspettative di vita (età, genere e coorte) e, riguardo a questa scelta, si è aperto un dibattito sull’adeguatezza dei coefficienti di trasformazione del montante contributivo in rendita vitalizia, ritenuti troppo generosi.1,2 Inoltre, anche ammettendo che venga corretta questa sovrastima, rimane il fatto che il sistema attuale non prende in considerazione l’esistenza di disuguaglianze sociali nell’aspettativa di vita, gradiente ampiamente documentato nella letteratura internazionale, a sfavore delle persone che arrivano alla pensione da carriere di lavoro subordinato con basso reddito e bassa posizione sociale.
L’applicazione nei coefficienti di trasformazione del valore medio della speranza di vita a questi gruppi sociali, che fruiranno del beneficio pensionistico per un numero di anni di vita significativamente inferiore alla media, produrrebbe una perdita di beneficio pensionistico a favore dei gruppi sociali più avvantaggiati; una sorta di redistribuzione al contrario certamente non voluta dal legislatore e per questo ancora meno accettabile. Lo scopo del presente lavoro è quello di contribuire a colmare la lacuna informativa tuttora presente nel dibattito, illustrando le prime evidenze per l’Italia sulla relazione tra carriera lavorativa e speranza di vita, attraverso l’applicazione sperimentale di un sistema d’indagine il cui utilizzo sistematico può rappresentare la fonte ufficiale del monitoraggio delle variabili attuariali sulla scala nazionale.

Una sintetica rassegna bibliografica sui problemi di equità attuariale

Il gradiente più noto e documentato rispetto all’aspettativa di vita è quello tra i generi. A 65 anni gli uomini in Italia possono contare in media su 16 anni di vita residua, mentre le donne in media ne hanno oltre 20.3 Questo comporta un’importante redistribuzione tra generi, poiché i coefficienti di conversione sono attualmente gli stessi per uomini e donne; una sua (ma solo parziale) giustificazione sta nell’esistenza dell’istituto della reversibilità, che attribuisce sostanzialmente la pensione alla coppia e rende meno rilevanti le differenze di trattamento tra generi.4,5 Altrettanto documentata è però la relazione esistente tra status socioeconomico e differenziali di salute, a partire dai lavori di Kitagawa e Hauser6 per gli Stati Uniti e dal cosiddetto Black Report per il Regno Unito.7 Un gradiente di salute, e in particolare di mortalità, è stato rilevato da tempo anche rispetto alla popolazione che si affaccia alla pensione.8-10A titolo di esempio, in Germania von Gaudecker e collaboratori trovano una differenza massima di 6 anni per gli uomini (a 65 anni) tra il primo e l’ultimo gruppo socioeconomico considerato.11 Per gli Stati Uniti, Singh e Siahpush12 stimano un campo di variazione a 65 anni di 1,9 anni per gli uomini e 1,2 per le donne in base a un indice di deprivazione che tiene conto di 11 indicatori di status. In Inghilterra e Galles, Bajekal e collaboratori utilizzano un indicatore di deprivazione di area (mediando quindi tra individui diversi), e trovano differenze di vita attesa a 65 anni di 3,3 anni per gli uomini e 2,3 per le donne, che diventato rispettivamente 5,2 e 4,7 considerando le aspettative di vita in buona salute.13
Utilizzando la professione come indicatore di status socioeconomico, sempre in Inghilterra e Galles si stima che un operaio non specializzato che arriva a 65 anni viva in media ancora 13 anni (tabella 1); un avvocato ne vive ben 5 di più. Per le donne il differenziale è un po’ più ridotto, sotto i 4 anni. In Francia, Cambois e collaboratori stimano una speranza di vita a 60 anni di 19 e 25 anni rispettivamente per uomini e donne occupati in mansioni manuali, che diventano 23 e 27 per uomini e donne a qualifiche alte.14 Per quel che riguarda l’Italia, anche se l’esistenza di questi differenziali di mortalità è presente da anni nel dibattito politico e scientifico, lo studio sistematico delle disuguaglianze sociali nella speranza di vita non trova purtroppo ancora disponibili fonti informative di livello comparabile a quanto utilizzato nei lavori citati. Su base nazionale sono in allestimento due nuove fonti informative: uno studio prospettico sulla speranza di vita delle persone incluse nell’indagine ISTAT sulla salute 1999-200015 e il follow up di mortalità della banca dati WHIP (Work Histories Italian Panel) di fonte INPS,16 che verrà utilizzato per la prima volta in questo articolo. Le evidenze sulle quali sino a oggi si è imbastito il dibattito sono tutte riferite a fonti locali, riguardanti alcuni sistemi metropolitani di studio della mortalità e morbosità dovute a differenze di reddito (Roma, Milano, Bologna, Torino)17-19 o classe sociale (Torino, Firenze, Livorno).20,21

Tabella 1. Aspettativa di vita a 65 anni; Inghilterra e Galles, periodo 1997-2001. Fonte: UK National Statistics (2006).
Table 1. Life expectancy at age 65; England and Wales, period 1997-2001. Source: UK National Statistics (2006).

Figura 1. Differenze nella speranza di vita alla nascita a Torino secondo decili di reddito mediano individuale equivalente denunciato nel 1998 a livello di sezione di censimento, periodo 2000-2005.
Figure 1. Life expectancy differentials at birth in Turin, by median per capita equivalent income deciles. Income declared in 1998 aggregated at census section, period 2000-2005.

Figura 2. Differenze nella speranza di vita a 35 anni a Torino secondo la classe sociale al censimento 2001, periodo 2000-2005.
Figure 2. Life expectancy differentials at age 35 in Turin, by socioeconomic status at 2001, period 2000-2005.

Figura 3. Mortalità per età e per genere nella coorte di studio e nella popolazione generale (IC 90%)
Figure 3. Mortality rates by age and gender in the study cohort and in general population (CI 90%).

Un aggiornamento delle stime di speranza di vita dello Studio longitudinale torinese

Nello Studio longitudinale torinese22 sono disponibili le informazioni sul reddito del contesto di residenza e la classe sociale, con le quali sono stati aggiornati per gli anni Duemila i differenziali nella speranza di vita. In tal modo è possibile avere un termine di paragone, seppure locale, per la discussione dei risultati dello studio di fonte INPS. I tassi di mortalità considerati per il calcolo attuariale della speranza di vita della popolazione torinese sono riferiti al periodo 2000-2005. Sono state analizzate le differenze riguardanti:

  • la speranza di vita alla nascita secondo il reddito mediano pro capite equivalente al 1998, ricostruito in Anagrafe tributaria a livello di sezione di censimento,17,18 che rappresenta una misura della ricchezza del contesto nel quale vivono i soggetti;
  • la speranza di vita a 35 anni per classe sociale di appartenenza, classificata secondo uno schema concettuale proposto in sociologia,23 e calcolata in base alla professione e alla posizione lavorativa rilevata individualmente ai censimenti 1991 o 1981.

La speranza di vita di riferimento alla nascita, nella popolazione e nel periodo considerato, è di 78,3 anni per gli uomini e di 83,7 per le donne; a 35 anni è di 44,1 e 49,1 rispettivamente. Classificando la popolazione secondo il reddito mediano familiare della sezione censuale di residenza, per gli uomini si osserva una perdita continua di speranza di vita dagli 80,6 anni della popolazione a maggior reddito ai 75 di quella più povera. Stessi risultati per le donne, per le quali si rileva una differenza di speranza di vita tra le classi estreme di circa 3 anni (figura 1). Passando alla classificazione basata sulla classe sociale individuale (figura 2), dal momento che la speranza di vita è calcolata a 35 anni (età in cui la posizione professionale si considera sufficientemente stabilizzata), le differenze sono apparentemente meno marcate, perché depurate dall’effetto della mortalità prematura precedente quest’età.
Rispetto al valore di riferimento degli imprenditori (46,2 anni per gli uomini), la classe più avvantaggiata è quella dei dirigenti con 46,5 anni, seguita dai liberi professionisti con 46,1; la classe più svantaggiata risulta invece essere quella degli operai non specializzati con 2,6 anni di speranza di vita in meno rispetto agli imprenditori. Per quanto riguarda le donne, quelle che si classificano libere professioniste godono della speranza di vita più alta (1,1 anni in più rispetto al riferimento delle imprenditrici), mentre la categoria più svantaggiata rimane quella delle operaie non specializzate, con una perdita di 0,5 anni rispetto alle imprenditrici. Contrariamente agli uomini, anche le impiegate e le autonome con dipendenti risultano avvantaggiate rispetto alle imprenditrici.

Materiali e metodi

La banca dati utilizzata in questo lavoro è il Work Histories Italian Panel (WHIP), un archivio di storie lavorative di fonte INPS, sviluppato dall’Università di Torino in collaborazione con il Laboratorio Revelli di Moncalieri e il Coordinamento statistico attuariale dell’INPS (http://www.laboratoriorevelli.it/whip). Il campionamento è sistematico per quattro date di compleanno: ne risulta un campione di circa l’1% (4/365), la cui carriera lavorativa è seguita in dettaglio a partire dal 1985. Gli episodi di carriera sono quelli in carico all’INPS:

  • dipendenti nel settore privato;
  • artigiani e commercianti;
  • parasubordinati;
  • cassa integrazione, mobilità, disoccupazione;
  • pensionamento.

Rimangono fuori dal campo di osservazione i dipendenti pubblici e gli autonomi dotati di propria cassa previdenzia le. Ne risulta un archivio, rappresentativo a livello naziona le dell’occupazione nel settore privato dell’economia, di cir ca 200.000 episodi lavorativi per anno e con dimensione lon gitudinale di circa 20 anni.

In WHIP però non è immediatamente disponibile l’informazione sulla data di morte; questa è presente in alcuni archivi gestionali dell’INPS, ma è una informazione che non è mai stata validata per essere utilizzata in analisi di mortalità e per la quale sono state dimostrate alcune incoerenze tra gestionali diversi. Inoltre, non era finora noto se il dato raccolto a fini gestionali potesse essere convertito in un’informazione effettivamente utilizzabile per scopi attuariali ed epidemiologici. Sono due i motivi per i quali lo stato in vita è rilevante per gli scopi gestionali dell’Istituto previdenziale:

  • le pensioni vanno pagate solo fino a quando il beneficiario è in vita; la morte del beneficiario può dare origine a un’eventuale pensione di reversibilità;
  • se muore un contribuente non pensionato, eventuali superstiti (coniuge e figli minori) possono aver diritto a ricevere una rendita.

Queste esigenze fanno sì che l’informazione registrata abbia una qualità sufficiente per consentire analisi di mortalità? Rispetto al primo dei due scopi ricordati, è verosimile che per i pensionati la risposta sia affermativa. Lo stato in vita infatti è sempre rilevante perché la pensione venga mantenuta in pagamento. Per quel che riguarda i lavoratori attivi, invece, il decesso viene rilevato solo quando esistano un coniuge o dei figli minori cui pagare la eventuale pensione ai superstiti. Rispetto al decesso, quindi, ci si può attendere che esistano dei falsi negativi (persone morte il cui decesso non è registrato). Da una validazione fatta confrontando a livello aggregato i tassi di mortalità rilevati in WHIP con quelli di popolazione di pari età e genere di fonte ISTAT, è risultato che per gli attivi esiste in effetti un problema non trascurabile di falsi negativi, stimabile intorno al 10% dei decessi totali di lavoratori attivi. Per quel che riguarda i pensionati, invece, i due flussi collimano, confermando anche in questo caso il livello di qualità che ci si attendeva per il dato gestionale. Dall’archivio WHIP è stato selezionato il sottocampione di individui per i quali si osserva il pensionamento tra il 1986 e il 2003, periodo per il quale si dispone di storie lavorative INPS, escludendo in prima battuta:

  • le pensioni di invalidità, per ovvi motivi di selezione;
  • le pensioni indirette, vale a dire le pensioni di reversibilità a favore dei superstiti, poiché a queste non è associabile il dato sulla carriera lavorativa;
  • i prepensionamenti, utilizzando come soglia i 50 anni.

Se ne ottiene un campione di 63.306 individui, per i quali si sono osservati a tutto il 2003 8.345 decessi, su un totale di 7.769.804 mesi-persona a rischio. è da notare che l’esclusione delle pensioni di invalidità e dei prepensionamenti equivale a escludere quella quota rilevante di lavoratori per i quali il lavoro ha comportato problemi di salute gravi, con o senza un’invalidità riconosciuta. Le analisi presentate quindi non vanno interpretate come stima complessiva del differenziale di aspettativa di vita imputabile all’attività lavorativa, ma solo del differenziale rilevabile per il sottocampione che è arrivato in età “normali” al momento della pensione.

Una misura di qualità del processo di follow up di mortalità viene dal confronto tra i tassi età-specifici di mortalità stimabili nel campione selezionato e quelli omologhi pubblicati da ISTAT (figura 3). Per gli uomini il profilo di mortalità del campione è sovrapponibile con quello della popolazione generale, salvo un calo nella fascia di età tra 75 e 80 anni. Nel caso delle donne i tassi di mortalità paiono essere sistematicamente superiori a quanto registrato per la popolazione generale. Va ricordato però che tra le categorie che rimangono fuori dal campo di osservazione di WHIP, oltre a coloro che hanno svolto la loro carriera come dipendenti pubbliche, vi sono coloro che non hanno mai partecipato, o solo molto episodicamente, al mercato del lavoro, quali le casalinghe. Sono stati quindi calcolati i differenziali di mortalità nella coorte secondo le covariate demografiche (genere, età, coorte, area di residenza) e secondo il reddito, stimato attraverso la proxy della pensione liquidata al lavoratore, come valore assoluto e in quintili e decili. Successivamente è stata analizzata la qualifica professionale secondo la definizione gestionale INPS (operai, impiegati e dirigenti), analizzando per ogni lavoratore l’intera storia lavorativa, e individuando la qualifica nella quale è stato impiegato in modo prevalente,24 evitando così gli errori di classificazione dell’occupazione registrata nei certificati di morte.25 Peraltro, in Italia, la mobilità intersettoriale è poco accentuata.26 L’analisi statistica eseguita con il package STATA utilizza varie specificazioni di un modello di durata di Cox, facendo l’ipotesi di rischi proporzionali ma senza imporre restrizioni sulla forma della funzione di sopravvivenza.

Risultati

La tabella 2 presenta i rischi relativi di mortalità secondo specificazioni diverse delle variabili indipendenti. Da un modello basato su variabili puramente demografiche (colonna A), risultano un rischio di mortalità relativo (RR) per le donne di 0,46, e un “premio” di coorte di circa il 3% per anno, valori che rimangono sostanzialmente invariati anche nelle specificazioni successive. Rispetto all’area di nascita, avendo come riferimento i nati nel Centro Italia, i nati nelle due aree del Nord presentano un RR in lieve eccesso statisticamente significativo. Nella colonna B includiamo tra le covariate la prima pensione mensile lorda percepita dal lavoratore, espressa in centinaia di euro a prezzi 2004. Dalla stima risulta un RR decrescente al crescere della pensione significativo al 95%, anche se non elevato in valore assoluto. Nelle colonne successive utilizziamo una specificazione in quintili e decili di pensione (colonne C e D), per evidenziare eventuali non linearità nella relazione tra reddito e aspettative di vita. In entrambi i casi non vi è un pattern molto chiaro: si evidenziano sia un RR negativo per le persone ad alto reddito, in linea quindi con la letteratura citata, ma anche RR positivi (e quindi una maggiore mortalità) per le persone al centro della distribuzione.
è probabile che questo secondo fatto vada ricondotto a una composizione troppo eterogenea del campione nei quantili inferiori della distribuzione, dove accanto a individui con redditi effettivamente bassi vi sarebbero persone per le quali la pensione registrata sottostima fortemente il reddito. Un problema simile è riportato da von Gaudecker e collaboratori, che utilizzano dati sempre di fonte amministrativa per la Germania.11 Questi autori rilevano come l’errore di classificazione sia molto rilevante per coloro che nel gergo previdenziale vengono definiti i «silenti». Questi sono individui che hanno smesso di versare contributi senza aver raggiunto i requisiti per richiedere la pensione, e quindi scompaiono come contribuenti ma non riappaiono come pensionati se non dopo molti anni. Questo stato di «silente» si verifica per coloro che proseguono la carriera lavorativa in attività non assicurate dall’INPS (per esempio nello Stato), o per chi si ritira precocemente dal mercato del lavoro (per esempio una donna che si dedichi alla famiglia). Quando questi individui raggiungono i requisiti di età richiedono la pensione, che tipicamente sarà molto bassa e rappresenterà una probabile sottostima del reddito effettivo.

Tabella 2. Rischi relativi di mortalità secondo le caratteristiche demografiche e di reddito di un campione 1% di 63.306 pensionati del settore privato in Italia (campione WHIP); periodo 1985-2003.
Table 2. Relative risk of mortality by demographic and income variables in a 1% sample of 63.306 pensioners in the private sector in Italy (WHIP sample); period 1985-2003.

Per l’Italia, un problema di classificazione sulle pensioni basse è da rilevare anche per i lavoratori autonomi, che spesso liquidano la pensione appena raggiunti i requisiti di anzianità – ottenendo quindi importi relativamente bassi – in quanto non esistono limiti al cumulo della pensione con il successivo proseguimento dell’attività lavorativa. Inoltre, buona parte degli autonomi versa contributi in corrispondenza dei minimi di legge, quale che sia il loro reddito. Per entrambi i motivi la pensione registrata nel campione sottostima ampiamente il reddito effettivo, e queste persone vengono collocate erroneamente nei primi quantili della distribuzione. Analizzando la distribuzione delle pensioni reali, in effetti, risultano esserci molti individui (circa il 10%) per i quali l’importo liquidato non raggiunge neanche l’assegno sociale: il fatto che la pensione non goda dell’integrazione al minimo è un ulteriore segnale che i redditi effettivi sono in realtà superiori. Si rileva inoltre un notevole numero di silenti: il 10% degli individui del campione è rimasto silente per almeno cinque anni.

Per ottenere un campione in cui la pensione sia una proxy più soddisfacente del reddito totale abbiamo quindi escluso i lavoratori autonomi, quelli con una pensione al di sotto dell’importo dell’assegno sociale (389 euro nel 2007), i silenti per più di tre anni e quelli che dopo la pensione hanno svolto ancora una attività lavorativa. Ne è risultato un campione di 22.763 individui, per 2.634 decessi su un totale di 2.586.652 mesi persona a rischio. Le statistiche descrittive sulla pensione degli individui nel campione completo e dopo la selezione sono riportate in tabella 3.
I rischi relativi rispetto alle variabili demografiche rimangono quasi invariati (tabella 4). è interessante notare che i RR sia delle donne sia dei nati nel NordOvest, nella prima specificazione (colonna A), soffrono probabilmente di un bias da confondimento di circa due punti percentuali, che in tabella 2 era meno apprezzabile. Includendo la pensione tra le covariate, infatti, si osserva che il RR delle donne scende: poiché le donne hanno redditi medi inferiori agli uomini, il RR misurato in un modello puramente demografico sottostima il vero effetto “biologico”, in quanto cattura anche parte dell’impatto (in questo caso sfavorevole) delle variabili di reddito. In direzione opposta il bias per i nati nel NordOvest, che hanno retribuzioni e pensioni maggiori della media.
Per quanto riguarda il reddito, il suo effetto sulle probabilità di morte diventa più apprezzabile, arrivando a un premio di un punto percentuale per ogni 100 euro di pensione mensile (colonna B). La maggior omogeneità del campione rende anche più regolare il profilo di rischio lungo la distribuzione dei redditi (colonne C e D). Fino a circa metà della distribuzione non si notano differenze nella mortalità legate all’aumentare dello status economico; si nota però un premio nelle parti alte della distribuzione, con un RR che cala sensibilmente dopo la mediana e arriva a 0,8 e 0,75 rispettivamente per l’ultimo quintile e l’ultimo decile.

Tabella 3. Statistiche descrittive sulla pensione degli individui nel campione completo e dopo la selezione.
Table 3. Mean, standard deviation and quantiles of individuals' pension in the full sample and in the restricted one (excluding people inactive beforeretirement and pensions below the social allowance).

Tabella 4. Rischi relativi di mortalità secondo le caratteristiche demografiche e di reddito dei 22.763 pensionati tra i soli lavoratori dipendenti (esclusi silenti e pensioni sotto il minimo) del campione 1% del settore privato in Italia (WHIP); periodo 1985-2003. Table 4. Relative risk of mortality by demographic and income variables in a sample of 22.763 pensioners in the private sector in Italy, excluding people inactive before retirement and pensions below the social allowance (WHIP sample); period 1985-2003.

Come ordine di grandezza, se si accetta l’ipotesi di rischi proporzionali anche al di fuori delle età considerate in questo studio e la si applica ai tassi di mortalità di uomini e donne, questi RR portano a una presumibile differenza di speranza di vita all’età di pensionamento tra classi estreme stimabile in circa 4,2 anni per gli uomini e 4 per le donne. Se si estende l’analisi alla carriera lavorativa, e in particolare alla qualifica professionale (colonna E), utilizzando come categoria di riferimento gli impiegati, i dirigenti non presentano differenze significative di mortalità rispetto a questi ultimi, mentre, a parità di caratteristiche demografiche e di reddito, svolgere mansioni manuali comporta un RR pari a 1,11.

Discussione

I risultati riportati sono le prime prove per l’Italia nel suo complesso delle relazioni tra lo status socioeconomico, così come si rivela nella carriera lavorativa, e la speranza di vita alla fine della carriera stessa. Ognuno dei fattori di rischio considerati, oltre a quelli anagrafici, pare avere un effetto specifico e indipendente sulle probabilità di morte, statisticamente significativo e del segno atteso, se confrontato con quanto noto nella letteratura dell’epidemiologia sociale e nello Studio longitudinale torinese,22 l’unico studio italiano con informazioni comparabili seppure su un piano locale. La dimensione delle differenze misurate nei diversi studi non è direttamente comparabile per la diversità di composizione delle popolazioni osservate, ma soprattutto per la differente età a cui viene stimata la speranza di vita.

I punti di forza dello studio sono la scala nazionale della popolazione osservata e la sua considerevole dimensione campionaria, che, tra l’altro, è in corso di potenziamento per passare a una taglia del 6%. I principali limiti riguardano le categorie professionali che rimangono escluse, la qualità del dato amministrativo e i problemi che potrebbero derivare dall’uso di queste stime per certificare la grandezza delle differenze di speranza di vita nel computo dei benefici pensionistici.

Per quanto riguarda la popolazione, la fonte informativa INPS esclude dall’osservazione la forza lavoro dipendente del settore pubblico; purtroppo la fonte informativa omologa del settore pubblico (INPDAP) al momento è di completezza e qualità meno nota e non consente un trattamento dei dati altrettanto analitico, ma non ci sono alternative all’arruolamento di un suo campione di iscritti per colmare questa lacuna nella rappresentazione dell’intera popolazione lavorativa italiana.

A proposito di qualità dell’informazione sulla storia lavorativa, si sono già discussi i limiti del dato sul reddito ricavabile dall’ammontare della pensione percepita, che consente una stima accurata solo per il lavoro dipendente. Il dato sulla qualifica professionale consente di distinguere solo tra operai, impiegati e dirigenti; soprattutto nelle prime due categorie sono compresenti lavoratori impiegati in mansioni estremamente eterogenee tra di loro rispetto al loro potenziale impatto sulla salute. In futuro questo limite potrà essere superato innanzitutto valorizzando il dato sul contratto di lavoro e il livello di inquadramento, ma soprattutto inserendo la mansione nel sistema di rilevazione amministrativa.

Del resto l’utilizzo congiunto del dato di qualifica con quello di reddito potrebbe comunque già permettere un livello di stratificazione della storia lavorativa sufficiente per l’aggiustamento dei coefficienti di calcolo del beneficio previdenziale. Inoltre, l’uso congiunto del dato di qualifica professionale con quello del settore di attività economica dell’impresa si presterebbe anche ad approfondimenti di altre differenze che sono rilevanti per la disciplina previdenziale dei lavori usuranti.27

Piuttosto rimane inadeguata la formula utilizzata per la ricerca dell’esistenza in vita: la completezza del dato ricavabile dagli archivi INPS è ragionevolmente adeguata solo nel caso delle carriere lavorative che sono sottoposte allo stesso regime di sicurezza sociale; per produrre stime di valore amministrativo il sistema dovrebbe arricchire il proprio follow up interno di esistenza in vita attraverso la ricerca nel registro nominativo nazionale di mortalità mantenuto dall’ISTAT a partire dal 1999. Superare queste limitazioni nelle fonti informative è alla portata di un moderno sistema di sorveglianza delle differenze di mortalità professionale, almeno per il lavoro dipendente, che è il principale campo di applicazione delle revisioni e del funzionamento del sistema previdenziale. Per quanto riguarda i settori produttivi diversi dal lavoro dipendente privato, il nuovo sistema di follow up prospettivo di mortalità dei campioni delle indagini ISTAT sulla salute15 potrebbe fornire la copertura mancante. A queste condizioni, il sistema potrebbe produrre stime amministrative delle differenze di speranza di vita all’età pensionabile per carriera lavorativa che siano certificabili per aggiustare il computo dei benefici previdenziali.

Anche con queste limitazioni, le differenze di speranza di vita stimate a partire dai differenziali di mortalità per reddito e qualifica dal sottocampione WHIP dei pensionati provenienti dal lavoro dipendente privato sono di direzione e intensità paragonabili a quelle ottenute nello Studio longitudinale torinese22 che osserva tutta la popolazione lavorativa, in forza e pensionata, settore pubblico compreso. Dunque, questi risultati si prestano a dare una prima risposta alla domanda iniziale dello studio. Quale che sia il completo quadro causale che va dallo status socioeconomico alla speranza di vita, si rileva comunque un importante gradiente che, quando analizzato rispetto alle sue implicazioni per il sistema pensionistico, dà origine a una redistribuzione di risorse a scapito delle persone che arrivano alla pensione da carriere di lavoro subordinato con basso reddito e bassa posizione sociale, e che vengono riversate sui gruppi sociali più avvantaggiati. Tuttavia, la documentazione correntemente elaborata dall’ISTAT e dalla Ragioneria generale dello Stato per il Nucleo di valutazione per la spesa pensionistica non prende in considerazione l’esistenza di queste disuguaglianze, che per i lavoratori dipendenti che si affacciano alla pensione potrebbero aggirarsi intorno a una differenza da due a quattro anni nella speranza di vita a favore dei percettori di redditi più alti, a seconda del genere e dell’età a cui viene stimata la speranza di vita. Sarebbe opportuno che, per ragioni di equità, questo gradiente sociale della speranza di vita venisse considerato nella revisione oggi in discussione nei coefficienti di trasformazione per il calcolo della pensione. L’articolo ha dimostrato che un sistema di indagine capace di monitorare queste variazioni attuariali sulla scala socioeconomica a livello nazionale è alla portata di un investimento modesto ma stabile sui sistemi informativi degli enti previdenziali e dell’ISTAT.

Conflitti di interesse: nessuno

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