Riassunto

L’articolo di Gennaro et al., pubblicato sul primo fascicolo di Epidemiologia&Prevenzione del 2019, porta nuovamente alla ribalta la controversa questione dell’incidenza di tumori maligni nei militari italiani impiegati all’estero.

L’articolo di Gennaro et al., pubblicato sul primo fascicolo di Epidemiologia&Prevenzione del 2019,1 porta nuovamente alla ribalta la controversa questione dell’incidenza di tumori maligni nei militari italiani impiegati all’estero. Rispetto a uno studio pubblicato alcuni anni fa su E&P,2 questo nuovo articolo analizza l’incidenza delle neoplasie non più nei soli militari dell’esercito, ma in tutte le forze armate e in un arco temporale più esteso (1996-2012).
Secondo i risultati di questo studio, il tasso standardizzato di incidenza dei tumori maligni nei militari, calcolato con riferimento alla popolazione italiana, è inferiore al valore atteso nel periodo considerato. Questo risultato viene apparentemente attribuito dagli autori soltanto al bias noto come healthy soldier effect. Il rischio neoplastico viene, poi, analizzato effettuando il raffronto tra la coorte di militari impiegati nelle missioni internazionali e quella dei militari non inviati all’estero. Da tale analisi emergerebbe nel primo gruppo, rispetto al secondo, un rischio di neoplasie maligne significativamente più elevato.
Tuttavia, questa procedura di analisi suscita qualche perplessità. Non sembra condivisibile l’attribuzione della differenza tra casi attesi e casi osservati unicamente al fattore healthy soldier effect. In questo modo, infatti, non si tiene alcun conto dell’aliquota di casi che, per diversi motivi, sfuggono al sistema di sorveglianza; fenomeno al quale gli autori fanno peraltro menzione nell’introduzione del lavoro. La proporzione di casi che sfugge al sistema di sorveglianza è tutt’altro che irrilevante; inoltre, la sottostima dei casi incidenti sembra essere significativamente maggiore nel personale non impiegato all’estero, nei militari meno giovani e nei casi di cancro diversi dal linfoma di Hodgkin.3 E dai risultati del lavoro di Gennaro et al. non sembra che questa sottostima si sia ridotta, dato che anche nel periodo più recente (2005-2012) la differenza tra casi osservati e attesi è estremamente rilevante, non diversamente da quanto rilevato in quello precedente (1996-2004). In base a queste considerazioni, il confronto del rischio neoplastico tra esposti e non esposti alle missioni all’estero che non tenga conto dell’esistenza di tale sottostima sembra inappropriato, se non addirittura fuorviante.
Nelle conclusioni del lavoro si afferma, infine, che i dati della sorveglianza militare dovranno necessariamente essere incrociati con le informazioni presenti nei database della sanità nazionale. Questo intendimento è pienamente condivisibile, in quanto consentirebbe di acquisire una buona parte dei casi che attualmente non sono noti. Sarà molto difficile valutare pienamente e correttamente il rischio neoplastico dei militari, impiegati o meno all’estero, senza lo studio basato sul linkage dei nominativi del personale militare con il database nazionale delle diagnosi ospedaliere, di cui si era parlato anni fa, ma che non risulta sia stato neppure avviato.

Conflitti di interesse dichiarati: nessuno.

Bibliografia

  1. Gennaro V, Negrisolo O, Bolgan L, Catalano I. Incidenza di tumori maligni (1996-2012) in giovani militari italiani inviati in missione all’estero. Analisi preliminare dei dati della Commissione parlamentare di inchiesta su uranio impoverito e vaccini (CUC). Epidemiol Prev 2019;43(1):48-54.
  2. Peragallo MS, Urbano F, Sarnicola G, Lista F, Vecchione A. Condizione militare e morbosità per cancro: il punto della situazione. Epidemiol Prev 2011;35(5-6):339-45.
  3. Peragallo MS, Urbano F, Lista F, Sarnicola G, Vecchione A. Evaluation of cancer surveillance completeness among the Italian army personnel, by capture-recapture methodology. Cancer Epidemiol 2011;35(2):132-38
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