Il 1 luglio 2021 si svolgerà, davanti alla Corte d’Assise del Tribunale di Vicenza, la prima udienza dibattimentale di uno dei più grandi processi ambientali della storia d’Italia: il processo PFAS Miteni.
Sul banco degli imputati sono finiti 15 dirigenti e amministratori di Miteni S.p.A. e delle società controllanti, rinviati a giudizio il 26 aprile scorso dal GUP dott. Roberto Venditti.
Il maxiprocesso nasce dalla riunione di due filoni d’inchiesta: uno per i reati commessi prima del 2013 (procedimento n. 1943/2016 RGNR), ovvero disastro innominato (434 c.p.) e avvelenamento delle acque (439 c.p.) che, oltre a 13 imputati, chiama a rispondere come responsabili civili anche Mitsubishi Corporation Inc. e la lussemburghese International Chemical Investors S.E., oltre a Miteni in fallimento; l’altro per i reati successivi al 2013, ossia inquinamento ambientale (procedimento n. 5019/2018 RGNR) e bancarotta fraudolenta. 
Al momento, sono oltre 200 le costituzioni di parti civili tra cui figurano 41 ex dipendenti di Miteni, la Regione Veneto, la Provincia di Vicenza, Comuni vicentini, padovani e veronesi, Ministeri dell’ambiente e della salute, Arpav, le società di gestione del servizio idrico integrato, associazioni ambientaliste, sindacati e circa un centinaio di cittadini coinvolti dalle Mamme NO PFAS, che dal 2017 hanno fatto sì che i riflettori su questa terribile vicenda non venissero mai spenti.

Cosa sono le PFAS: “forever chemicals”, sostanze chimiche eterne

Con il termine PFAS (per-fluoro-alkyl substance, sostanze perfluoroalchiliche) si indica un vastissimo gruppo di sostanze per- e poli-fluoroalchiliche. Si tratta di oltre 5.000 composti chimici prodotti sinteticamente dall’uomo a partire dalla prima metà del secolo scorso. Il legame carbonio-fluoro che le caratterizza le rende particolarmente resistenti al calore oltre che idro e oleorepellenti, e proprio per questo trovano impiego in una vastissima gamma di prodotti di uso comune (rivestimenti antiaderenti di pentole, contenitori per alimenti, sacchetti da popcorn per forno a microonde, impermeabilizzanti per tessuti, pelli, carta oleata, materassi, tappeti, divani, sedili, detersivi, insetticidi, pesticidi), nei cosmetici, nelle schiume antincendio e molto altro.
Le PFAS si accumulano nel sangue e nei tessuti umani, negli animali e nei vegetali.
L’emivita, una volta sospesa l’assunzione, varia da molecola a molecola: da diversi anni per le molecole a catena lunga (7/12 atomi di carbonio) a poche settimane per le catene corte (4/6 atomi di carbonio).  
La molecola maggiormente rappresentata nella contaminazione da PFAS in Veneto è il PFOA, già dichiarato inquinante POP nella Convenzione di Stoccolma del 2009.
Nel giugno 2013, il Comitato degli Stati membri dell’Unione europea ha identificato il PFOA come sostanza persistente, bioaccumulabile e tossica (PBT), determinandone di conseguenza l’inserimento nella candidate list delle sostanze estremamente preoccupanti (SVHC).
Nel giugno 2017, su indicazione dell’Agenzia europea per le sostanze chimiche (ECHA), la Commissione europea ha riconosciuto che il PFOA comporta rischi inaccettabili per la salute umana e l’ambiente.

L’inquinante perfetto: incolore, inodore, insapore

Il territorio di Trissino, in provincia di Vicenza, è ricchissimo d’acqua e si trova nella zona di ricarica della seconda falda acquifera più grande d’Europa. 
Quale posto migliore per insediare aziende che, per le proprie produzioni, necessitano di enormi quantità d’acqua?
Tra queste, Miteni, che dal 1965, quando ancora si chiamava RiMar (Ricerche Marzotto), produceva acidi carbossilici perfluorurati utilizzati per impermeabilizzare i tessuti. Nel 1988 venne acquistata da Mitsubishi ed EniChem cambiando nome in Miteni. Nel 1996, Mitsubishi acquisì il 100% delle azioni e, dopo poco, introdusse il processo per la rigenerazione di tensioattivi perfluorurati. Nel 2009, la società fu venduta all’International Chemical Investors Group (ICIG) per 1 euro.
Miteni godeva di quell’acqua senza alcun rispetto per essa e per tutte le altre creature viventi. Pur in presenza di studi che, sin dagli anni Settanta, avevano riscontrato l’inquinamento della falda, queste sostanze, non essendo normate, non venivano ricercate nell’ambiente. Miteni poteva sfruttare indisturbata.
Solo nel 2013, grazie allo “Studio di valutazione del rischio ambientale e sanitario associato alla contaminazione da sostanze perfluoro-alchiliche (PFAS) nel Bacino del Po e nei principali bacini fluviali italiani”, avviato due anni prima dall’IRSA-CNR (https://sian.aulss9.veneto.it/index.cfm?action=mys.apridoc&iddoc=803) nell’ambito di una convenzione con il Ministero dell’ambiente e della tutela del territorio e del mare, venne data notizia che in Veneto era stata scoperta la più grande contaminazione da PFAS attualmente conosciuta al mondo per vastità di territorio e di popolazione coinvolta: almeno 350.000 persone contaminate in 30 comuni delle province di Vicenza, Padova e Verona: concentrazioni molto elevate di PFOA vennero rilevate non solo nel bacino di Agno e Fratta Gorzone, ma soprattutto nelle acque potabili, con possibile rischio sanitario per le popolazioni che bevevano queste acque prelevate dalla falda.
In seguito a numerosi esposti di cittadini, associazioni e istituzioni, il Nucleo operativo ecologico dei Carabinieri di Treviso – su incarico della Procura della Repubblica di Vicenza – ha raccolto vari elementi di prova (in una relazione composta da 270 pagine e 360 allegati, per un totale di oltre 9.000 pagine) che, se confermati nel corso del processo, dimostrerebbero come la Miteni e le due società proprietarie fossero da tempo consapevoli dell’inquinamento.

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I mancati controlli e l’impatto sull’ambiente

Negli anni Novanta, Miteni dichiarava di immettere in atmosfera 15 kg/h di composti perfluorurati (Regione del Veneto, Commissione tecnica regionale Sezione ambiente, LR 16.4.85, n. 33 Parere, n. 796 del 12.04.1990). Il resto finiva nel vicino torrente Poscola o direttamente in fognatura: nel 2013, oltre 5 milioni di ng/l di PFAS (Rapporto di prova n. 310954 di ARPAV, rev. 0). Nel 2017 furono rinvenuti diversi metri cubi di rifiuti altamente contaminati sepolti sotto l’argine del torrente.
Nonostante le produzioni di Miteni fossero note e autorizzate da anni, e nonostante gli studi sulla contaminazione della falda fossero stati inviati alle istituzioni (studio IRSEV del 1979 inviato alla Regione, progetto Giada del 2005 e del 2010 inviati ad Arpav e Provincia di Vicenza), fino al 2013 nessun ente pubblico e nessun gestore degli acquedotti si era mai preoccupato di procurare gli standard analitici per la ricerca delle PFAS nell’ambiente.
La comunicazione nei confronti della popolazione è sempre stata rassicurante, il problema è stato sottostimato e tutti coloro che provavano a dire il contrario venivano accusati di allarmismo.

Nuovi composti autorizzati ma non controllati: la storia non insegna

Nel 2018, ben cinque anni dopo la scoperta della gravissima contaminazione da PFAS, furono rinvenuti nella falda acquifera rispettivamente a 7 e 13 chilometri di distanza dall’azienda produttrice i composti PFAS di nuova generazione, GenX e cC6O4 (compresi nell’autorizzazione di impatto ambientale rilasciata dalla Regione Veneto a Miteni nel 2014, in piena emergenza PFAS). 
La ricerca del GenX da parte dell’Arpav avvenne a seguito di una richiesta di informazioni da parte del Ministero delle infrastrutture e dell’ambiente olandese relativamente all’attività di recupero del GenX svolta da Miteni (che riceveva tali rifiuti dall’estero) e dalla possibile diffusione di questa sostanza nell’ambiente. Il cC6O4, invece, emerso a seguito dell’autodenuncia dell’azienda. 
Visto che la Miteni non forniva sufficienti garanzie di sicurezza dal punto di vista ambientale, la Provincia di Vicenza inviò diverse diffide che costrinsero Miteni a bloccare parte degli impianti fino a chiudere definitivamente, dichiarando fallimento a fine 2018.
Attualmente, la messa in sicurezza operativa non è stata ancora conclusa. Il terreno sotto al sito industriale impregnato di queste sostanze non è stato ancora rimosso e, durante gli innalzamenti periodici della falda dovuti alle precipitazioni, i contaminanti vengono portati a valle.
Gli acquedotti che emungono dal punto più contaminato della falda sono stati dotati di filtri a carboni attivi derivanti da fibra di noce di cocco e, in seguito alla dichiarazione dello stato di emergenza (Consiglio dei Ministri del 21.03.2018) e allo stanziamento di 56 milioni di euro, sono ora in fase di ultimazione tre nuove condotte acquedottistiche per prelevare acqua da pozzi non contaminati. Ad oggi, non è stato individuato alcun metodo efficace per ripulire la falda contaminata.

L’impatto sulla catena alimentare

La Regione Veneto ha avviato un “Piano di campionamento degli alimenti per la ricerca di sostanze perfluoroalchiliche”, effettuato nel corso del 2017, che ha messo in evidenza criticità per alcune matrici alimentari (soprattutto uova e pesce), prendendo però in considerazione solo PFOA e PFOS, due delle quattro molecole per le quali l’Autorità europea per la sicurezza alimentare (EFSA), nel settembre 2020, ha stabilito un’assunzione settimanale tollerabile (TWI) di 4,4 ng/kg di peso corporeo per la somma di PFOA, PFNA, PFHxS e PFOS (j.efsa.2020.6223).
Non è dato sapere quali provvedimenti abbia preso la Regione Veneto nei confronti dei produttori di alimenti contaminati e non sono state fornite alla popolazione informazioni su successivi campionamenti di controllo eseguiti. Unica notizia certa: il divieto di consumo di pesce pescato proveniente dalle aree dove sono state riscontrate positività analitiche per le PFAS, fino al 30.06.2022 (Bur n. 14 del 29.01.2021).

L’impatto sulla salute umana

Le PFAS sono bioaccumulabili, persistenti e tossiche. Agiscono nell’organismo umano come interferenti endocrini e sono potenzialmente cancerogene.
Ci sono migliaia di studi disponibili in letteratura scientifica sugli effetti di queste sostanze sull’organismo umano (vedi elenco di alcuni studi pubblicato a p. 234 su EP 2017 n. 5-6): tra quelli effettuati in Veneto, citiamo lo studio ISDE/ENEA sulla mortalità nei 21 comuni contaminati da PFAS con il contributo da Vincenzo Cordiano, primo medico ad aver sollevato il problema PFAS in Veneto, gli “Studi sugli esiti materni e neonatali” curati da Paola Facchin, , coordinatrice del Registro nascite della Regione Veneto; gli studi su giovani maschi veneti esposti a PFAS curati da Carlo Foresta, del Dipartimento di medicina dell’Università di Padova, e gli studi sui lavoratori Miteni di Enzo Merler, afferente al Registro regionale veneto dei casi di mesotelioma di Padova.
Attualmente è in corso lo studio TEDDY Child, condotto dalla Prof.ssa Sara Scrimin, per comprendere i possibili effetti dei PFAS sullo sviluppo cognitivo, emotivo e socio-comportamentale dei bambini residenti nelle aree venete interessate dalla contaminazione.

Vedi il riassunto della vicenda PFAS Miteni su Epidemiol Prev 2017;41(5-6):232-236

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Nella primavera del 2017, la Regione Veneto avviò il Piano di sorveglianza sanitaria sulla popolazione esposta a PFAS residente in 30 comuni della zona maggiormente coinvolta, la cosiddetta “area rossa” (DGR n. 691 del 21 maggio 2018). I primi a ricevere l’appuntamento per il prelievo del sangue furono i genitori dei quattordicenni che fino ad allora avevano solo sentito voci su possibili problemi nell’acqua potabile.
Pochissimi si erano allarmati già a partire dal 2013. La Regione Veneto e i gestori degli acquedotti si erano impegnati non poco a rassicurare la popolazione. Alcuni sindaci erano scesi in piazza con tanto di caraffa e bicchiere per dimostrare che l’acqua pubblica era la più sicura perché la più controllata.
Il caso scoppiò quando arrivarono a casa, chiusi in una busta, i risultati delle analisi che indicavano la presenza di queste sostanze dai nomi impronunciabili nel sangue dei figli. 
Le prime a lanciare l’allarme furono alcune mamme, prima riunite in piccoli gruppetti di paese, che riuscirono poi a coinvolgere, l’8 ottobre 2017 a Lonigo (VI) – dove si trovano i campi pozzi degli acquedotti – più di 10.000 persone in una grande manifestazione. Dopo pochi giorni i gestori diedero la notizia che l’implementazione dei filtri installati riusciva a garantire un’acqua “priva di PFAS” al di sopra del limite quantificabile in laboratorio.
Ma questo non fu sufficiente a tranquillizzare quelle che alcuni giornalisti denominarono le “Mamme NO PFAS”. A partire dalla scoperta di queste pericolose sostanze nel sangue dei figli, non hanno mai smesso di documentarsi e di contattare tutti coloro che possono avere una qualche influenza o competenza nell’affrontare il problema venuto alla luce. 
Oltre a innumerevoli incontri con gli enti locali e regionali, hanno incontrato i diversi ministri dell’ambiente, sono intervenute al Parlamento europeo a Bruxelles e a Ginevra, fino ad arrivare al Second National PFAS Conference (Boston 2019). 
Nel 2020 sono state invitate dal Ministero dell’ambiente a partecipare a un tavolo tecnico per la definizione dei limiti nazionali agli scarichi, ma l’ultimo cambio di Governo sembra per ora aver congelato questa importante decisione. 
Fino al 2017 erano rimasti inspiegabili gli innumerevoli casi di bambini con colesterolo alto, i casi di ragazzi anche giovanissimi con problemi alla tiroide, gli aborti spontanei nelle prime settimane di gravidanza, le difficoltà a concepire delle giovani donne, il tumore ai testicoli anche in bambini molto piccoli: con la scoperta della contaminazione da PFAS, le mamme iniziano a comprendere.
Le Mamme NO PFAS hanno come obiettivo principale quello di far emergere la verità e di farla conoscere, affinché la popolazione prenda coscienza del problema. Hanno capito che gli enti preposti a tutelare la popolazione, se non riceveranno una forte e costante spinta dai cittadini, cederanno sempre alle pressioni di chi mette al primo posto il profitto. 
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