La scienza si trova oggi nel cuore di diverse tempeste. Fra queste, la scoperta della non riproducibilità di molti risultati scientifici è forse la più nota e spazia dal campo medico (test clinici e pre-clinici) fino a quello degli studi sul comportamento (priming research). Sebbene il cattivo uso della statistica sia stato segnalato come una causa evidente di tale crisi della riproducibilità, in realtà le sue ragioni profonde vanno ricercate altrove, in particolare nel passaggio da un regime di little science, regolato da piccole comunità di ricercatori, alla big science attuale, contrassegnata da una produzione ipertrofica di milioni di articoli scientifici e dall’imperativo del publish or perish, in un contesto dominato da logiche di mercato.
E mentre nella società si susseguono aspri dibattiti (su vaccini, clima, OGM), i casi di articoli scientifici comprati o ritrattati segnalano una crisi profonda non solo della scienza, ma in generale del pensiero esperto. In tutto ciò, la statistica è indicata come la principale imputata, accusata di utilizzare metodi che gli stessi esperti non saprebbero spiegare in modo comprensibile (p-test).
C’è una via d’uscita? Sì, perché i ricercatori possono scegliere: corteggiare il potere e difendere lo status quo oppure contribuire a un profondo processo di riforma, rifiutando sia una visione della scienza come religione, sia l’idea secondo cui il problema risieda nella scarsa conoscenza scientifica da parte del pubblico.