Un tempo il medico-scienziato si sentiva autorizzato a ridurre l’essere umano a mero oggetto di studio. Per indagare le tracce lasciate nel corpo da un ambiente inquinato gli sarebbe bastato prelevare e analizzare campioni di sangue o di latte. E se non gli era necessario conoscere il corpo intero, figuriamoci l’uomo intero, soggetto portatore di una storia individuale e magari anche collettiva...

Oggi, invece, è chiaro a (quasi) tutti che le analisi dei campioni di materiale biologico non bastano; il riduzionismo miope ha lasciato il posto al riconoscimento della complessità dei fenomeni in studio, complessità che non può fare a meno di inserire gli studi epidemiologici in un disegno d’indagine più ampio, multidisciplinare, dove all’epidemiologo e alle altre figure tecniche, si affiancano antropologi, sociologi, esperti di comunicazione, riuniti nel tentativo comune di comprendere i meccanismi dei fenomeni indagati, di ricercarne le cause, ipotizzare interventi di riparazione e azioni preventive in grado di integrarsi con le esigenze espresse dalle popolazioni interessate.

È quanto avvenuto nel caso del Progetto SEBIOREC, biomonitoraggio umano realizzato nelle zone più inquinate della regione Campania, dove troviamo al lavoro anche Vincenza Pellegrino, sociologa, e Liliana Cori, antropologa, che attraverso 86 interviste scandagliano l’immaginario epidemiologico delle popolazioni che vivono in uno dei territori italiani più devastati dal punto di vista ambientale. Queste interviste, raccolte nel volume Corpi in trappola documentano in modo formidabile la percezione del rischio e le esigenze informative e di partecipazione della popolazione campana. Sono una fonte di informazione senza la quale è difficile «riallineare gli scopi della ricerca scientifica con i bisogni dei cittadini». È una lettura consigliata a ogni epidemiologo. Redazione di E&P

 

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