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- 03/01/2020 15:43
Elogio dell’omeopatia?
Premetto, per evitare qualsiasi fraintendimento, che io non credo assolutamente nelle teorie omeopatiche e che condivido in tutto le critiche che ne fa, ad esempio, Silvio Garattini (S.Garattini et al., Acqua fresca? Tutto quello che bisogna sapere sull’omeopatia, Sironi editore, 2015), e anche nonostante le difese d’ufficio dell’APO Italia (Associazione Pazienti Omeopatici: www.apoitalia.it).
L’idea che le malattie siano dovute solo a perturbazioni della “forza vitale” (Lebenskraft), teoria rivista nel ventesimo secolo e trasformata nel “principio vitale” (Lebensprincip), e poi ancora nell’origine psicologica affermata da James Taler Kent ( J. T.Kent, Lectures on Homoepathic Materia Medica, Philadelphia, Boericke & Tafel, 1905), non ha mai avuto una sufficiente dimostrazione scientifico sperimentale. Con ciò non voglio peraltro negare che nella patogenesi abbia un suo ruolo anche l’aspetto soggettivo psicologico.
Ma allora perché ho intitolato “Elogio dell’omeopatia”? perché credo che l’omeopatia abbia colto degli elementi importanti che invece la medicina ufficiale, quella che oggi si basa sull’evidenza scientifica, ha spesso trascurato quando addirittura non ha del tutto negato.
Il rapporto che il paziente vuole instaurare con chi ritiene possa aiutarlo per quanto riguarda la sua salute non è mai un rapporto che si può esaurire nella razionalità, ed infatti da sempre c’è stata una commistione tra medicina e stregoneria. Il paziente ha bisogno non solo di “capire” ma anche di “credere”, di “fidarsi” se non addirittura talvolta di “illudersi”. Quanto la medicina ufficiale possa o debba recuperare questo elemento di irrazionalità non è facile determinarlo, ma sicuramente almeno deve ridiventare capace di stabilire dei rapporti di affettività. Quando un paziente parla del suo medico omeopata, ne parla con enfasi affettiva, mentre spesso del medico di medicina generale se ne sente parlare, bene o male, con distacco se non addirittura con accezioni burocratiche.
Un altro elemento, seppur paradossale, è la differenza tra un rapporto che si ottiene perché “se ne ha il diritto” e quello che invece si instaura pagando. Ovviamente difendo completamente la supremazia di un sistema sanitario universalistico e gratuito, ma non posso negare di essermi talvolta sentito più protetto quando ho pagato la visita medica; naturalmente fa eccezione il caso di un rapporto con un clinico che sia anche un amico o addirittura un parente (ho avuto la fortuna di avere padre, madre, sorella, cognato e nipote medici …). Ci dovremmo allora chiedere se, invece che pagare il ticket per esami diagnostici o visite specialistiche, non fosse più opportuno pagare ogni anno una piccola quota per il medico di medicina generale. Basterebbe una quota media di 30 euro a testa, modulabile da pochi euro per i meno benestanti a un centinaio di euro per i più ricchi, per compensare i due miliardi di ticket della specialistica.
Ma a parte i problemi del rapporto tra paziente e medico ciò che l’omeopatia ha colto è la necessità di occuparsi non tanto delle malattie quanto dei malesseri. In realtà, per fortuna, meno frequenti sono i casi in cui si pretenda di risolvere delle patologie gravi con metodi omeopatici, ma per contro spesso la medicina ufficiale non sa affrontare i semplici malesseri. Oggi non c’è dubbio che la clinica sia diventata prevalentemente una clinica delle malattie e solo marginalmente una clinica della salute. E ciò è accaduto grazie alla cresciuta capacità della clinica di riuscire a trattare, e spesso realmente e definitivamente risolvere anche le patologie gravi; occupandosi di queste patologie si sono invece considerati i banali malesseri, le sintomatologie lievi, i disturbi spesso solo legati a problemi di ansia e di stress quasi come perdite di tempo cui dare quindi poca importanza. L’approccio cosiddetto “olistico”, cioè l’inquadramento di un singolo problema nel contesto generale della persona, è comune ai medici omeopatici mentre manca spesso ai medici della medicina ufficiale che seppur molto attenti al singolo e specifico problema non si curano di contestualizzarlo nella situazione generale della persona.
Questo “bisogno di sentirsi bene” che tutti sentono, ma che spesso non trova risposte, si è riversato da una parte verso meritorie pratiche salutari controllando ad esempio l’alimentazione o/e praticando attività motorie, dall’altra cercando ascolto da parte di chi dà più attenzione a questi problemi, vuoi per motivi di marketing vuoi per un sincero desiderio di offrire delle soluzioni alla richiesta di benessere. E non è solo un effetto placebo, bensì in alcuni casi è la riscoperta di dimenticati rimedi fitoterapici in altri semplicemente il dare maggior ascolto e attenzione alle richieste di salute.
La nostra clinica, eccellente quando esercitata in molti reparti di medicina e di chirurgia o in ambulatori specialistici, non sempre è tale quando deve affrontare la quotidianità dei problemi di malessere per lo più risolti superficialmente con rimedi sintomatici: è questo il serbatoio che offre la clientela insoddisfatta alle medicine alternative. Sembra che in Europa siano più di 100 milioni le persone che utilizzano l’omeopatia e i medici che la esercitano siano circa 50mila. In Italia quasi 3 milioni di persone si affidano in modo continuativo a pratiche mediche omeopatiche e un quinto di italiani vi fa ricorso almeno una volta l’anno.
Un fenomeno così diffuso non può essere allora tacciato tout court di illusione inefficace; le persone spesso ritengono di esser soddisfatte delle cure e di star bene con i rimedi omeopatici ricevuti. È altrettanto vero che la maggior parte di costoro accede contemporaneamente anche a presidi tradizionali e fa uso anche di farmaci cd. allopatici. Ma la rilevanza del fenomeno rimane ed è importante.
Allora mi si permetta di fare un “elogio alla omeopatia” per aver permesso di evidenziare come il nostro sistema sanitario non sia oggi in grado di soddisfare interamente il bisogno di salute della popolazione anche se probabilmente ne avrebbe teoricamente le potenzialità su base scientifica, ma non riesce a declinarla nella pratica quotidiana.
Il rischio della burocratizzazione dei rapporti tra medico e paziente è un rischio quasi inevitabile e conseguente all’aver lodevolmente disegnato un sistema sanitario come risposta a un diritto fondamentale della persona alle cure sanitarie. Quando si ha un diritto lo si pretende e pretendendo spesso si pensa di ricevere meno di quanto si vorrebbe. Oggi è allora urgente chiederci come fare perché questo rischio non faccia crollare la fiducia nell’attuale sistema portando ahimè a ripristinare altre forme di organizzazione sanitaria che inevitabilmente riproporrebbero problemi di diseguaglianza nell’accesso alle cure.
Sono molti i milioni di euro che i cittadini spendono di tasca propria per le cure omeopatiche: sono proprio l’uso migliore che essi possono fare di queste risorse di cui oltretutto hanno oggi scarsità? Dobbiamo cercare di trovare le modalità perché tutti possano trovare nel SSN risposte non solo efficaci, ma anche soddisfacenti dei propri bisogni di salute. Forse allora abbiamo qualcosa da imparare dal mondo dell’omeopatia senza accontentarci di criticarla, seppur giustamente, per la mancanza di evidenza sperimentale di efficacia.
L’omeopatia è riuscita a guadagnarsi il consenso di così tante persone, chiediamoci perché! Ma non dimentichiamoci comunque di difendere con ogni mezzo la necessità che le cure siano realmente efficaci, ma anche sempre soddisfacenti.
Commenti: 3
2.
Il rapporto affettivo medico-paziente
Cesare, lo sai che condivido pienamente l'idea del rapporto 'affettivo' o quanto meno empatico tra medico e paziente, e del danno prodotto dal viraggio nel tempo di tale relazione fino a risultare inaccettabili gli atteggiamenti di distacco da parte di alcuni professionisti. Sessant'anni fa il medico di base - mi riferisco ai piccoli centri - era coinvolto perfino in alcune decisioni familiari estranee all'ambito sanitario, era l'amico e il parente acquisito che suggeriva oltre che prescrivere. Una riflessione in merito è senz'altro necessaria. E certamente sono d'accordo sulle tue ulteriori considerazioni.
1.
Nulla da eccepire!!
Condivido le tue considerazioni Cesare.
3.
qualcosa si può fare
E’ vero: la medicina basata sulle evidenze ha in parte dimenticato l’approccio olistico o, più banalmente, la capacità di ascolto e di empatia. Molti interventi sono stati scritti al riguardo e c’è una buona consapevolezza del problema nella parte più avveduta del mondo medico. Però le cose non cambiano molto o non abbastanza velocemente. Perché? Credo che le cause siano molte ma certamente il poco tempo da dedicare a ogni singolo paziente nelle strutture pubbliche è il primo fattore che riduce la disponibilità a un approccio più empatico. Poi c’è la scarsa formazione a una buona relazione e l’illusione che un corretto approccio tecnico sia tutto ciò di cui il malato ha bisogno. Ma c’è anche altro: un conto è il rapporto con una persona seriamente ammalata, soprattutto se in modo cronico, in cui gli aspetti relazionali entrano a buon diritto nel processo di cura, altra cosa è l’ammalato seriale che passa sistematicamente un po’ del suo tempo nell’ambulatorio del MMG perché è solo e la solitudine genera continui disturbi. La solitudine è un grande fattore di disagio e quindi di non salute, ma è il medico colui che la può prendere in carico?
Non ho soluzioni né per il poco tempo né per la scarsa formazione né per le solitudini, però il lavoro di gruppo per il medico è meglio del lavoro da solo, il lavoro nelle “case della salute” è meglio del lavoro nell’ambulatorio singolo, la valorizzazione dell’apporto del personale non medico è meglio del loro utilizzo in ruoli solo subalterni, ecc.
Vi ricordate Terzani in “Un altro giro di giostra”? quando scopre di avere un tumore si fa curare allo Sloan Kettering Cancer hospital ma poi va in giro per il mondo alla ricerca di un approccio più complessivo al suo star male. Non so se la medicina basata sulle prove troverà mai il tempo e la voglia di offrire l’approccio complessivo, né sono sicura che questo sia propriamente il suo compito, ma certo qualcosa si può fare per far sì che qualche persona in meno si rivolga all’omeopatia.