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E&P 2012, 36 (4 EPdiMezzo) agosto, p. 1-1
DOI: —
Ambiente
ILVA di Taranto: cosa ne dicono gli epidemiologi?
Riassunto
Pubblichiamo le osservazioni di alcuni epidemiologi e di soggetti coinvolti a vario titolo nelle indagini sul funzionamento dell’impianto siderurgico di Taranto; altre riflessioni verranno pubblicate in seguito. Invitiamo i lettori a lasciare brevi commenti sul sito.
ILVA di Taranto: comunicato stampa AIE
12/08/2012
La deflagrazione dei diritti
di Eugenio Paci, Direttore scientifico di E&P, Ispo, Firenze
La perizia epidemiologica è stata prudente, ma i risultati parlano chiaro
di Benedetto Terracini, professore di Epidemiologia dei Tumori (ora in pensione), Università di Torino
Consulente Tecnico di parte all’incidente probatorio (comune di Taranto)
Affidabilità delle perizie e comportamento dell’Azienda
di Maria Angela Vigotti, Università di Pisa
Consulente Tecnico di parte all’incidente probatorio (comune di Taranto)
Taranto, la Costituzione e il ricatto occupazionale
di Emilio Gianicolo, Istituto di fisiologia clinica del CNR , Consulente tecnico di parte (Allevatori)
ILVA di Taranto: un’altra tragedia annunciata
di Laura D’Amico, Avvocato di parte civile al Processo Eternit di Torino
Taranto: senza le associazioni avremmo continuato a mangiare e respirare diossina nel silenzio più totale e adesso si rischia che tutto torni come prima!
di Maurizio Portaluri, primario radioncologo, Ass. Salute Pubblica, Brindisi
La parola ai lavoratori
Intervista a Donato Stefanelli, segretario della FIOM di Taranto, tratta dal GR di Radio Popolare Network del 2 agosto 2012 ore 7.29.
La voce delle donne del quartiere Tamburi
Video dallo speciale di Repubblica TV dedicato all'ILVA di Taranto
Ambiente, salute, lavoro e responsabilità
di Fabrizio Bianchi, IFC-CNR Pisa
Conoscenze scientifiche e gestione del rischio
di Giuseppe Costa, Dipartimento di scienze cliniche e biologiche, Università di Torino
L'epidemiologia deve entrare nella governance ambientale ordinaria
di Giorgio Assennato, direttore ARPA Puglia e Lucia Bisceglia, ARES Puglia
La deflagrazione dei diritti
Eugenio Paci, Direttore scientifico di E&P, Ispo, Firenze
Quanto accade a Taranto, dove l’iniziativa della magistratura per l’insostenibilità della situazione ambientale ha portato al sequestro parziale dello stabilimento siderurgico è il vero naufragio italiano, terribilmente reale, non metaforico, frutto di anni di abbandono, collusioni, incapacità e illegalità. Epidemiologia & Prevenzione è nata quaranta anni fa dalla consapevolezza che diritto al lavoro e diritto alla salute non possono e non devono, anche costituzionalmente, essere alternativi.
Nelle forme di oggi, più consapevoli dell’impatto ambientale oltre che di quello sulla salute dei lavoratori, vi è solo una risposta possibile: ripartire dall’indispensabile compresenza di questi diritti. È evidente che non può essere la magistratura a risolvere i problemi, ma sta al governo nazionale e locale proporre soluzioni che avviino da subito iniziative per uscire da questa terribile e incivile contrapposizione e che abbiano ugualmente presenti, da subito, i diritti costituzionali.
Il momento è difficile in tutta Italia, ma forse è soprattutto a Taranto che si deve dimostrare se ci sono le energie e la capacità di cambiare. La responsabilità di questo stato di cose, al di là di quelle giudiziarie, ci riguarda tutti, specchio di una grave sofferenza del nostro paese ed in particolare del Sud Italia. Gli epidemiologi italiani contribuiscono a documentare i danni e i rischi, ma questo non può bastare. Il riconoscimento del diritto al lavoro richiede rispetto dell’ambiente e attenzione alla salute a tutti i livelli, un rispetto che in Italia, non solo a Taranto, a volte non c’è, come dimostra il recente scandaloso irrisorio risarcimento che Inail ha riconosciuto a un giovane precario, morto sul lavoro.
La perizia epidemiologica è stata prudente, ma i risultati parlano chiaro
Benedetto Terracini
professore di Epidemiologia dei Tumori (ora in pensione), Università di Torino
Consulente Tecnico di parte all’incidente probatorio (comune di Taranto)
Lo studio epidemiologico effettuato per rispondere ai quesiti del GIP è stato condotto con rigore metodologico e le inferenze si basano su dati verificabili. Federacciai ha comprato pagine intere dei principali giornali italiani a difesa dell’ILVA affermando – tra l’altro – che i risultati della perizia epidemiologica sono “opinabili”. Tuttavia, durante l’incidente probatorio in tribunale, il 30 marzo, i suoi periti si sono ben guardati dal sottostare ad un confronto diretto con i consulenti del GIP sulla attendibilità della stima di morti e malati attribuibili alle emissioni dell’ILVA. Nelle stesse pagine a pagamento, l’unico riferimento alla salute è l’affermazione che l’azienda si sarebbe adeguata “alle sempre nuove migliori tecnologie per la tutela della salute”. Una affermazione che apparentemente richiama il messaggio lasciato trentacinque anni fa da Giulio Alfredo Maccacaro – fondatore di “Epidemiologia & Prevenzione” – secondo cui la prevenzione delle malattie inizia dall’impiantistica. Ma è anche una affermazione difficilmente conciliabile con i risultati delle indagini dell’autorità giudiziaria e dello studio dei consulenti del GIP.
I consulenti del GIP sono stati prudenti nella loro stima del numero di morti e malati attribuibili all’ILVA, in quanto – per stimare il numero di casi in eccesso – hanno dovuto ipotizzare che concentrazioni di PM10 inferiori a 20 microgrammi al m3– siano prive di effetti sanitari a breve termine, mentre tale valore è semplicemente un realistico obbiettivo enunciato dalla Organizzazione Mondiale della Sanità, al di sotto del quale le esposizioni sono tutt’altro che innocue (la soglia di 40 microgrammi/m3 di PM10 prevista dalla normativa europea vigente e richiamata dai periti dell’ILVA prescinde dalle nozioni sugli effetti sulla salute e ha suscitato aspre critiche da parte del milieu scientifico).
È del 1956 il Decreto 303 del Presidente della Repubblica che imponeva ai datori di lavoro la responsabilità di proteggere i lavoratori alle loro dipendenze dai rischi lavorativi di ogni genere e di informarli in proposito. Non pare proprio che questo sia avvenuto all’ILVA in modo sufficiente.
La questione cruciale, ora, è l’elaborazione di un programma realistico di bonifica, compatibile con la conservazione dei posti di lavoro, attuabile con la massima rapidità e trasparenza.
Affidabilità delle perizie e comportamento dell’Azienda
Maria Angela Vigotti, Università di Pisa
Consulente Tecnico di parte
all’incidente probatorio (comune di Taranto)
Sono stata consulente di parte del Comune di Taranto, conosco da anni la situazione ambientale di quella città e ho potuto leggere interamente la perizia epidemiologica. Si tratta di uno studio sugli effetti a breve termine e uno studio di coorte di popolazione, costruita dai dati anagrafici. A mio giudizio, gli studi condotti sono di notevole qualità, sono stati impostati con notevole rigore e in modo conservativo. I risultati sono importanti e hanno messo chiaramente in rilievo i danni per la salute della popolazione.
Lo studio sugli effetti a breve termine è conservativo per diverse ragioni:
- per la costruzione dei dati giornalieri di inquinamento in cui sono state usate le mediane, per evitare di includere i massimi e i minimi, quindi in parte sottostimando l’esposizione;
- le analisi sono suddivise per quartiere con riferimento la città, un riferimento esterno avrebbe verosimilmente fornito risultati più elevati;
- per i quartieri sono stati usati i valori di esposizione di tutta la città, l’applicazione della esposizione puntuale avrebbe reso ancora più elevati gli effetti;
- si è tenuto conto dei fattori sociali e che i quartieri subiscono in ogni caso un livello medio di inquinamento che interessa tutta la città.
Pur in presenza delle scelte conservative brevemente descritte, emergono risultati molto importanti. Lo studio sulla coorte di popolazione è una notevole novità per l’epidemiologia, ed è stato realizzato grazie alla disponibilità di tutti i dati necessari: anagrafe comunale storica, flussi sanitari, elenco dei lavoratori, flussi Inps per la storia lavorativa etc. Dati disponibili solo perché richiesti dagli epidemiologi nell’ambito di un’inchiesta giudiziaria, ma spesso inaccessibili agli stessi epidemiologi nel corso della loro normale attività di ricerca, che immancabilmente si trova a combattere gli ostacoli che i vari enti e soggetti frappongono ricorrendo alle norme sulla privacy. Quello svolto a Taranto è di fatto uno studio esemplare che spero venga reso pubblico e poi replicato in altre realtà. Dimostra, tra l’altro, che non serve aspettare di avere un registro tumori per capire le criticità sanitarie di una popolazione. La quantità e qualità dei flussi di dati esistenti in Italia permetterebbe, se disponibile agli epidemiologi, di dire molto più di quanto a fatica si riesce normalmente a fare.
Fino a ieri molto è stato detto sull’inquinamento di Taranto dovuto all’industria, confermato dalla perizia dei chimici, meno è stato possibile dire sulla situazione sanitaria della popolazione, ma gli studi dell’OMS sulla mortalità nei siti italiani inquinati, i risultati del Progetto Sentieri e la mia analisi su Taranto nel periodo 1970-2004 denunciavano una situazione molto critica. La mortalità per patologie respiratorie dagli anni ’80 supera quella regionale anche nelle donne: un primo minimo, se pur molto parziale, intervento immediato di risanamento con la copertura dei parchi minerari verosimilmente permetterebbe di non continuare a respirare quella odiosa polvere dispersa dal vento, vento che se da una parte aiuta la città a sopravvivere dall’altra fa sì che abbia un alto tasso di ricoveri per BPCO in età inferiore ai 50 anni e che a un bambino sia stato diagnosticata una malattia da fumatore incallito.
Come ha reagito l’industria ai risultati delle perizie? Con una campagna mediatica e non seriamente scientifica. Con una controperizia che non è mai stata depositata e quindi discussa, come riferiscono anche i giornali, con una serie di convegni organizzati dall’Azienda presso il Centro Studi Ilva in cui gli invitati cercano di dimostrare che i risultati degli studi sulla relazione tra inquinamento ambientale e salute sono deboli, nonostante l’enorme quantità di evidenze cumulate negli ultimi trent’anni. In uno di questi convegni si fanno affermazioni sorprendenti, per esempio si afferma che la curva dose-risposta che emerge dagli studi sugli effetti acuti non è plausibile: “Ce lo ha detto Paracelso che la dose fa il veleno”. Quindi se ne può dedurre che fumare poche sigarette al giorno o respirare un po’ di particolato non arreca danno. Gli illustri ricercatori stranieri invitati a un altro di questi convegni fanno tutti parte di una società di consulenza scientifica e ingegneristica, la Exponent, il cui obiettivo, riportato sul sito, è quello di “fornire ai nostri clienti le informazioni critiche richieste per le decisioni”. Nonostante il taglio più scientifico di queste relazioni il tono di informazione di parte emerge con chiarezza.
Concludo con una domanda, non mia, che riporto sempre come ultima diapositiva nelle presentazioni riguardanti salute e inquinamento nella città di Taranto: a fronte di quale beneficio in termini di qualità della vita i tarantini dovranno continuare a vivere nella “città necessaria” ?
Immagine tratta da wiki Commons File: Taranto-Aerial_view-2.jpg Italiano: Taranto (Puglia, Italia) dall'aereo. Autore: Kadellar. File licenziato in base ai termini delle licenze Creative Commons Attribuzione.
Taranto, la Costituzione e il ricatto occupazionale
Emilio Gianicolo, Istituto di fisiologia clinica del CNR , Consulente tecnico di parte (Allevatori)
Nel 2010, oltre 4 mila tonnellate di polveri emesse dai camini; 1,3 tonnellate di benzene; 338 kg di IPA. E poi, diossina e PCB rinvenuti negli animali abbattuti e più in generale nelle varie matrici ambientali analizzate la cui presenza “si può ricondurre all’attività aziendale di ILVA s.p.a.”. E che hanno generato:
- un aumento del 2% nella frequenza di decessi per tutte le cause per i residenti a Taranto esposti a una concentrazione di PM10 di origine industriale pari a 10 microgrammi/m3;
- un aumento del 9% di decessi per eventi coronarici acuti;
- un aumento dell’8% di ricoveri ospedalieri per infezioni acute delle vie respiratorie;
- un aumento rispettivamente del 9% e del 25% di ricoveri per malattie dell’apparato respiratorio e per tumori maligni tra i bambini e le bambine con meno di 14 anni (rispettivamente 638 e 17 casi attribuibili);
- un aumento del 20% di gravidanze con esito abortivo tra le donne residenti ai Tamburi, quartiere distante poche centinaia di metri dall’acciaieria,
dove i periti nel periodo 2004-2010 hanno stimato
- 91 decessi attribuibili ai superamenti del limite OMS;
- 160 ricoveri per malattie cardiache e
- 219 per malattie respiratorie.
Questo dice la scienza. Questo è quanto autorevoli studiosi hanno riportato nelle loro perizie, sulla base di metodologie al contempo consolidate ed avanzate.
Evidenza scientifica, diritto alla salute, diritto al lavoro
A poche ore dal provvedimento di sequestro degli impianti Ilva, tuttavia, il tema del giorno non è più tanto la forza dell’evidenza scientifica che ha portato a tale provvedimento, quanto la considerazione se il diritto alla salute si possa conciliare con il diritto al lavoro.
A tal proposito, bene scrisse il Procuratore capo di Taranto, dott. Francesco Sebastio, in una sua missiva indirizzata a Comune Provincia Regione e Ministero dell’ambiente:
«Nella nostra Costituzione c'è un solo diritto che, non solo ha valore assoluto, ma non accetta il minimo contemperamento anche in presenza di altri diritti tutelati dalla Carta, ed è il diritto alla vita, ovvero alla salute». Il procuratore capo chiosava la sua garbata e quanto mai opportuna missiva chiedendo alle autorità destinatarie della comunicazione di «voler informare con la massima urgenza questa Procura delle iniziative che i soggetti interessati di questa comunicazione riterranno di adottare nell’ambito delle rispettive competenze».
Non mi risulta che alcuno dei destinatari di questa missiva abbia mai ufficialmente risposto.
Il mio parere è che nemmeno a Taranto la salute possa essere negoziata.
Soprattutto a Taranto, la città dei due mari. Soprattutto a Taranto, la città del rosso e del blu.
Il blu del mare, seriamente contaminato, e ormai sopraffatto dal rosso delle polveri dell’acciaieria che hanno lordato finanche le tombe dei cimiteri.
A Taranto deve valere il diritto alla salute così come sancito dall’articolo 32 della Costituzione e deve valere l’articolo 41 della carta costituzionale per il quale l’iniziativa economica privata è libera ma “non può svolgersi in contrasto con l'utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana.”
Ritengo, infine, che nel complesso dramma della vicenda Ilva che si è protratta per tanto, troppo tempo, confluisca il dramma dei lavoratori che, fuori dalle alte considerazioni scientifiche e dalle alte considerazioni di Diritto, soffrono sulla loro pelle e su quella dei loro familiari la condizione di candidati all’incertezza e alla precarietà economica.
Cosa fare dunque?
La risposta non può essere che una sola: abbattere le barriere che il più forte ha costruito per dividere coloro che giustamente e strategicamente si battono per un ambiente sano da coloro che il ricatto occupazionale costringe ad una visione di breve termine; una visione quest’ultima che, pur giustificata da esigenze immediate di sopravvivenza, non può fare altro che perpetuare il sacrificio di salute sicurezza libertà e dignità umana sull’altare del profitto del più forte.
ILVA di Taranto: un’altra tragedia annunciata
Laura D’Amico, Avvocato di parte civile al Processo Eternit di Torino
Le recentissime vicende giudiziarie relative allo stabilimento ILVA di Taranto, per quanto s’è sinora potuto apprendere dalle informazioni giornalistiche, pongono in luce una situazione che, innanzitutto dal punto di vista giuridico, appare di estrema gravità.
Decenni di impiego di sostanze altamente tossiche per le persone (cittadini e lavoratori), per l’ambiente nell’assenza di precauzioni adeguate.
L’esistenza da molti decenni di una legislazione che sia con riferimento alla sicurezza negli ambienti di lavoro, che con riferimento alla tutela ambientale pone specifici obblighi giuridici la violazione dei quali costituisce reato.
Pubbliche Autorità ed Organi di Vigilanza da gran tempo raggiunti da segnalazioni e/o denunce che, a quanto è dato sapere, non hanno a tutt’oggi adottato interventi di tutela e coercitivi, quali quelli che ben avrebbero potuto, e dovuto, essere posti in essere nel rispetto della legge. Il permanere, specie negli ultimi anni, di sempre più preoccupate segnalazioni sui danni all’ambiente e sui gravi, quando non gravissimi danni alle persone, segnalazioni rimaste sostanzialmente inascoltate. Un’imprenditoria che per decenni ha spudoratamente violato la legge penale del lavoro che, sol che osservata, avrebbe consentito di evitare un così grave inquinamento sia interno che esterno all’azienda, avrebbe consentito di evitare il manifestarsi di lesioni e/o morti sulla cui origine è auspicabile che almeno ora si faccia luce e si dia una risposta di giustizia.
In tale quadro si inseriscono i recenti provvedimenti adottati dal GIP di Taranto che, stando a quanto sinora emerso, trovano ampio fondamento in una tale pregressa situazione di palese violazione della legge. L’auspicio è che, pur comprensibilmente preoccupati per la sicurezza del proprio posto di lavoro, i lavoratori non si facciano ignari promotori di iniziative a tutto beneficio dei responsabili dell’Ilva. Occorre invece mantenere unito il fronte di tutti coloro che, cittadini e lavoratori, sono stati sinora duramente colpiti dai gravi e reiterati comportamenti aziendali, oggi oggetto di indagini preliminari, non facendosi ostaggio nel rapporto tra indagati ed Autorità Giudiziaria.
Ai rappresentanti degli Enti Territoriali, ai rappresentanti degli organi deputati alla vigilanza (e non certo ai lavoratori e ai cittadini) il compito di trovare soluzioni che riescano a contemperare, ove possibile, contrastanti esigenze. Impegno doveroso, anche alla luce dei troppi anni di inspiegabili assenze.
Taranto: senza le associazioni avremmo continuato a mangiare e respirare diossina nel silenzio più totale e adesso si rischia che tutto torni come prima!
Maurizio Portaluri, primario radioncologo
Ass. Salute Pubblica, Brindisi
Che a Taranto ci fosse una concentrazione pericolosa e dannosa di inquinamento ambientale di origine industriale era cosa nota da decenni anche ai profani di chimica ed epidemiologia. E non solo. Gli studi epidemiologici condotti dall'OMS e da altre istituzioni nazionali denunciavano una situazione molto critica. Per esempio era già noto dagli anni '80 che anche tra le donne la mortalità per patologie respiratorie a Taranto era superiore all'atteso. Ma come spesso accade, perché la questione assurgesse agli onori della cronaca e della verità nel modo traumatico del sequestro giudiziario, c'è voluto l'impegno scientifico di Alessandro Marescotti, fondatore un paio di decenni fa della associazione telematica per la pace Peacelink, il quale sarà pure, come precisa l'ARPA con una caduta di stile, un "insegnante di materie letterarie in un liceo tarantino", che però nel 2008 ha fatto quello che nessuna istituzione preposta alla tutela dell'ambiente e della salute aveva mai fatto: l'analisi del pecorino prodotto nei pascoli prossimi all'ILVA con evidenza di concentrazioni di diossina e PCB tre volte superiori ai limiti di legge. A seguito di questa iniziativa la ASL di Taranto ha fatto abbattere 1.300 capi di bestiame allevati a ridosso del siderurgico. A seguito della denuncia degli allevatori sono state avviate le attività giudiziarie che hanno indotto la Procura della Repubblica a disporre le indagini epidemiologiche su popolazione e lavoratori, anche queste mai effettuate fino ad allora in Puglia. Trenta morti in più all'anno attribuibili all'ILVA. Finalmente l'epidemiologia parla un linguaggio comprensibile al popolo!
Nel 2010 di nuovo Peacelink insieme ad un'altra associazione, Altamarea, evidenzia troppa diossina nelle carni di ovini e caprini. Un'ordinanza della Regione Puglia vieta il consumo di fegato di ovini e caprini cresciuti in un raggio di 20 km dall'area industriale di Taranto.
Anche il Consiglio Regionale deve rincorrere le associazioni: è della fine del 2008 la legge regionale che abbassa a 0.4 ng/Nm3 il valore di diossine, ma a marzo 2009 viene modificata: niente controlli in continuo ma solo per tre settimane all'anno e per parte della giornata. Ma il problema purtroppo rimane tutto intero, in quanto la diossina non fuoriesce solo dal camino E312, ma attraverso emissioni non convogliate.
Nel 2011 il Fondo Antidiossina del professor Fabio Matacchiera (un altro "insegnante"!) fa analizzare i mitili, le famose "cozze di Taranto". Emergono valori estremamente preoccupanti. La ASL di Taranto vieta il prelievo e la vendita delle cozze allevate nel primo seno del Mar Piccolo. I mitili presentano concentrazioni di diossina e PCB superiori ai limiti di legge.
Qualche giorno prima del sequestro giudiziario Marescotti divulga i dati di uno studio di ricercatori dell'ARPA che evidenzia un eccesso di piombo nelle urine dei tarantini.
Il resto è cronaca giudiziaria e sindacale. Purtroppo nessuno ha mai solidarizzato con i morti e i malati di Taranto, né con le loro famiglie e i bambini, né con i lavoratori dell'agricoltura e dell'itticoltura che il posto di lavoro lo hanno già perso.
La parola ai lavoratori
Audio-intervista a Donato Stefanelli segretario della FIOM di Taranto tratta dal GR di Radio Popolare Network del 2 agosto 2012 ore 7.29;
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Le donne di Taranto: 'Se non moriamo di malattia, moriremo di fame'
Ambiente, salute, lavoro e responsabilità
Fabrizio Bianchi
Epidemiologia ambientale e registri di patologia, IFC-CNR, Pisa
A proposito del Sito di Interesse Nazionale per le bonifiche di Taranto, desidero soffermarmi su due temi di riflessione.
Innanzitutto sul tema della responsabilità
la Direttiva 2004/35/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, sulla responsabilità ambientale in materia di prevenzione e riparazione del danno ambientale, istituisce un quadro di responsabilità ambientale basato sul principio “chi inquina paga” per prevenire e riparare i danni ambientali. I danni ambientali contemplati nella direttiva sono quelli, diretti o indiretti, arrecati all'ambiente acquatico coperti dalla legislazione comunitaria in materia di gestione delle acque; i danni, diretti o indiretti, arrecati alle specie e agli habitat naturali protetti a livello comunitario dalla direttiva "Uccelli selvatici" e dalla direttiva "Habitat", la contaminazione, diretta o indiretta, dei terreni che crea un rischio significativo per la salute umana.
Nel caso di Taranto, la valutazione sul danno ambientale e sanitario dovrebbe distinguere adeguatamente e chiaramente le responsabilità passate da quelle presenti e in atto, per evitare attribuzioni non basate su evidenze, tentazioni di attribuire le cause solo al passato, e conseguenti assunzioni distorte di oneri, con la consueta assistenza del pubblico al privato.
Al proposito si segnala il recente DL del CdM che assegna 336 milioni euro, di cui 329 di parte pubblica e 7 di parte privata.
Sicuramente si tratta di uno stanziamento cospicuo e importante per interventi urgenti di messa in sicurezza e di risanamento, mentre per quanto riguarda le bonifiche in senso stretto, anche sulla base delle evidenze scientifiche disponibili incluse le perizie Epidemiologica e Chimica, è ragionevole pensare che occorreranno stanziamenti ben superiori. Ricordo un recente articolo pubblicato su Environmental Health, che ha stimato in circa 10 miliardi di euro gli investimenti in bonifiche con valore positivo costo-beneficio valutando gli impatti ambientali per la salute nei SIN di Priolo e Gela per i quali sono previsti meno di 1 miliardo di euro di investimenti (Guerriero et al, 2011; http://www.ehjournal.net/content/10/1/68/abstract).
Un secondo elemento riguarda il dualismo ambiente-salute e lavoro
Metto insieme ambiente e salute, sebbene il binomio sia tutt’altro che scontato, specie sul piano della dimostrazione e accettazione del nesso di causalità, richiamato in termini troppo spesso rigidi o strumentali anche/proprio in situazioni dove il corpo di evidenze è comunque sufficiente per prendere decisioni preventive, com’è nel caso di Taranto.
Il lavoro è spesso separato o posto in contraddizione, in linea con una visione antistorica che ha portato quasi sempre a perdere ambiente, salute e lavoro.
Il caso di Massa Carrara è emblematico. Le dismissioni del grosso della Zona Industriale Apuana iniziarono sotto le pressioni popolari a seguito della lunga serie di incidenti, i più rilevanti dei quali furono quello del 12 Marzo all’ANIC-Agricoltura e del 17 Luglio del 1988 alla Farmoplant (ex Montedison-Diag).
Gli oltre 1.500 lavoratori all'epoca impiegati, prevalentemente giovani, subirono un lungo periodo di cassa integrazione e successiva difficoltà al reimpiego; a distanza di oltre 20 anni le operazioni di bonifica effettuate a terra sono circa il 10% di quelle autorizzate (http://www.arpat.toscana.it/documentazione/presentazioni-convegni/prsentazione-risultati-del-progetto-sentieri/); la mortalità a lungo termine si è mantenuta elevata (+20% tra gli uomini, + 7% tra le donne; fonte Sentieri).
Si potrebbero fare tanti esempi analoghi, così come tanti sono gli esempi di debole difesa dell’ambiente e della salute e contemporanea strenua difesa dell’occupazione anche contro le decisioni della magistratura di sequestro degli impianti, come accadde ad esempio a Gela nel 2002, un altro SIN da bonificare e con notevoli criticità su ambiente e salute che attendono di essere risolte.
Taranto, per la dimensione delle contraddizioni, degli interessi, delle evidenze scientifiche, può rappresentare un’inversione di tendenza in cui si difende il lavoro mettendo la tutela dell'ambiente e della salute al primo posto.
Ulteriori riflessioni sono presenti sul sito di 'Scienza in rete' all'indirizzo:
http://www.scienzainrete.it/contenuto/articolo/gli-studi-su-taranto-dagl...
Conoscenze scientifiche e gestione del rischio
Giuseppe Costa,
Dipartimento di scienze cliniche e biologiche,
Università di Torino
Le perizie
documentano che l’insediamento produttivo dell’ILVA di Taranto con le sue emissioni ha provocato dei gravi danni alla salute alla popolazione dell’area circostante in una misura stimabile.
La magistratura sulla base di queste conoscenze stabilisce le conseguenze penali di questa responsabilità dell’impresa e per interrompere il reato sospende l’attività dell’impresa stessa.
L’impresa fa un appello per salvare il destino dell’industria (siderurgica) italiana da questi provvedimenti e contesta la validità delle osservazioni scientifiche su cui si fonda.
Le parti sociali e le comunità legate alla filiera in tutta Italia si oppongono alle misure di sospensione dell’attività per il pericolo dei contraccolpi sull’occupazione.
Dunque un caso di controversia che si gioca su almeno due piani distinti. Il primo quello della validità delle conoscenze scientifiche, il secondo quello della gestione del rischio sulla base delle conoscenze scientifiche.
La perizia epidemiologica ha risposto alle domande della magistratura inquirente con il meglio dell’apparato metodologico e dei dati che sono disponibili in Italia per valutare la specificità, la direzione e l’intensità dell’associazione tra un’esposizione ambientale a inquinanti legati ad emissioni dell’insediamento produttivo ed effetti sulla salute a breve e lungo termine e il loro impatto in termini di casi attribuibili. Gli autori della perizia sottolineano limiti e prospettive dell’indagine, ma concludono che la stima dell’impatto può essere considerata valida. La revisione scientifica dell’indagine e dei suoi risultati consentirà di approfondire gli eventuali aspetti critici come sempre accade nella revisione tra pari, una pratica di cui la magistratura dovrebbe imparare ad adottare le regole, anche per evitare di affidare la controversia sugli aspetti di incertezza scientifica al gioco tra i periti di parte, che rispondono a mandati un po’ diversi da quelli della revisione scientifica.
L’unico punto critico della perizia che credo si dovrebbe sollevare subito, perché ha rilievo per le conseguenze sulle decisioni, è quello della mancata valutazione dell’andamento temporale di questi effetti. È noto che i procedimenti di gestione del rischio hanno portato l’impresa a fare nell’ultimo decennio degli investimenti di prevenzione e tutela che hanno prodotto alcuni risultati sulle emissioni misurate. Ora, siccome gli effetti sulla salute messi in evidenza dalla perizia hanno una breve latenza, per la prima volta sarebbe possibile stimare l’impatto sulla salute di queste misure di contenimento dell’inquinamento, se esso c’è. La cosa avrebbe un grande valore sia per la controversia scientifica, sia per le conseguenze sulle decisioni. Nel caso della controversia scientifica se l’impatto sulla salute fosse sensibile ed elastico alle misure, questo argomento arricchirebbe la forza del nesso di causalità che viene ipotizzato.
Nel caso delle conseguenze sulle decisioni l’argomento sarebbe decisivo per stabilire l’opportunità o meno di interrompere il reato con la sospensione dell’attività dell’impresa che sono incriminate. Infatti ci si troverebbe nella stessa situazione molto comune, in cui, a fronte di un palese reato come ad esempio la violazione delle norme antincendio che si verifica in una buona parte degli stabilimenti ospedalieri delle nostre aziende sanitarie, il reato, nonostante l’obbligatorietà e la non discrezionalità dell’azione penale, non viene sanzionato, ad esempio con la chiusura degli stabilimenti stessi, e questo avviene sulla base di due argomenti. Il primo è quello che l’impresa, l’ASL nel nostro caso, abbia adottato un piano di correzione dell’irregolarità e ne dimostri la progressione di adozione nel tempo. Il secondo è che la chiusura dello stabilimento ospedaliero potrebbe provocare danni alla salute più frequenti e gravi di quelli prevenibili con la chiusura dello stabilimento stesso che, per definizione, eliminerebbe il rischio antincendio.
Mutatis mutandis, la situazione in termini di gestione del rischio è molto simile a quella di Taranto. Se si potesse dimostrare che il piano di adeguamento dell’impresa ha avuto un impatto sulla salute nel senso desiderato, ci sarebbe una prima base per derogare dall’applicazione della sospensione dell’attività vincolata ad una prosecuzione controllata del piano stesso. Se si potesse poi ancora misurare anche l’impatto sulla salute che avrebbero le ricadute sull’occupazione non solo a Taranto della chiusura dell’impianto, cosa fattibile dato che sono ben noti in letteratura gli effetti sulla salute della disoccupazione e in esercizio di health impact assessment sarebbero stimabili i rischi attribuibili, allora si potrebbe completare il quadro delle conoscenze con il numero di casi attribuibili alle conseguenze della chiusura dell’impianto. L’unico aspetto eticamente controverso di questo secondo argomento è che i gruppi bersaglio di questi due impatti sarebbero diversi, quello ambientale riguarderebbe i residenti, quello occupazionale i lavoratori diretto e dell’indotto e le loro famiglie.
Cosa si può imparare da questa vicenda e suggerire agli attori in gioco?
- Dal punto di vista procedurale sarebbe utile introdurre la peer review nelle perizie.
- Dal punto di vista dell’indagine epidemiologica sarebbe necessario un supplemento di indagine che permetta
-sia di testare la sensibilità dell’impatto sanitario all’andamento temporale delle esposizioni
-sia di stimare l’impatto sulla salute atteso a causa delle misure di chiusura delle attività incriminate.
- Dal punto di vista della gestione tecnologica ed impiantistica del rischio sarebbe utile aprire la possibilità di negoziare la prosecuzione dell’attività sulla base di un piano di risanamento dell’impianto adeguato alla gravità dell’impatto, in modo proporzionale all’andamento dei risultati conseguiti.
- Mentre l’azione penale dovrebbe continuare il suo corso sulla base della risoluzione delle eventuali controversie scientifiche legate ai risultati delle indagini peritali e della valutazione delle responsabilità.
L'epidemiologia deve entrare nella governance ambientale ordinaria
Giorgio Assennato, direttore ARPA Puglia
Lucia Bisceglia, ARES Puglia
Il diffondersi dell’uso della metodologia epidemiologica nei processi penali contro i reati ambientali è certamente “cosa buona e giusta”, e ciò è ancor più vero nei casi, come il procedimento penale contro l’ILVA di Taranto, in cui si realizzano studi epidemiologici innovativi e robusti. A un osservatore non italiano apparirà certo strana la scarsità di studi epidemiologici nella governance ambientale ordinaria. L’uso di studi epidemiologici per fini di policy ambientale è certamente più logico rispetto alla complessità del criterio di causalità richiesto in un processo penale. A parte lo studio “Moniter” condotto in Emilia Romagna per valutare l’impatto ambientale e sanitario dei termovalorizzatore, molto modesto è il ruolo dell’epidemiologia nel sistema agenziale (fondato su un hub nazionale, ISPRA, e le diverse ARPA/APPA regionali o provinciali), ovvero dell’uso di dati epidemiologici nei processi valutativi e decisionali.
Le ragioni sono molteplici: la difficoltà di allineare funzionalmente il sistema agenziale col servizio sanitario; l’approccio unicamente basato sul control & command proprio di molte ARPA che ritengono il proprio compito esaurirsi nella valutazione del rispetto dei valori soglia nelle matrici ambientali; il pesante intervento della magistratura amministrativa su tutto quanto non sia definito normativamente.
Pur prodotta in un contesto così peculiare quale quello di un procedimento penale, o forse proprio per questo, la perizia ha in qualche modo imposto a tutti i portatori di interesse la necessità di confrontarsi, anche criticamente, con dati epidemiologici prodotti con rigore metodologico per l’assunzione di risoluzioni di assoluta rilevanza, che non hanno a che fare “solo” con il futuro dello stabilimento siderurgico. La storia di Taranto ha evidenziato in modo plastico quale possa essere il ruolo dell’epidemiologia nella costruzione delle decisioni politiche, caricandola allo stesso tempo di responsabilità di cui è indispensabile acquisire piena consapevolezza.
In Puglia, è stata recentemente approvata una legge regionale che ha trovato il consenso anche del Ministero dell’Ambiente, che prevede - per le aziende sottoposte ad autorizzazione integrata ambientale e con rilevanti emissioni in atmosfera - la valutazione del danno sanitario, secondo una metodologia simile a quella utilizzata nel procedimento penale citato, ma inserita in un centro ambiente salute che garantisca, anche attraverso l’auditing esterno di un comitato di garanti di esperti a livello nazionale, risultati scientificamente affidabili.
La legge prevede, in caso di accertamento di effetti sanitari delle emissioni correnti, la formulazione di una decisione di riduzione delle emissioni proporzionale rispetto agli effetti accertati (vai al dibattito sulla legge regionale sulla valutazione del danno sanitario in Puglia).
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4.
a proposito di peer review
Mi riallaccio alla riflessione di Giuseppe Costa per mettere a fuoco alcuni aspetti della perizia a me poco chiari:
1) intervalli di confidenza all'80% o al 90%: perchè nella parte delle malattie acute non sono stati usati gli IC al 95%? Poichè sia nel caso dell'IC all'80% che del 90% alcune volte il limite inferiore è di poco superiore all'unità, si potrebbe pensare ad un uso strumentale degli IC (da escludere conoscendo la alta professionalità degli autori).
2) Tumori: dai dati della perizia mi pare emerga che l'ipotesi nulla possa essere esclusa solo per il carcinoma dello stomaco negli occupati. Questo aspetto mi sembra trascurato sia nelle conclusioni della perizia e tanto più dai media. Non pensate che debba essere chiarito? Nella parte relativa a Taranto dello studio SENTIERI gli autori dicono chiaramente che l'ecceso di mortalità neoplastica stimata è largamente attribuibile a esposizioni occupazionali mentre quelle ambientali "potrebbero giocare un ruolo non marginale". Questo mi sembra un punto molto importante.
3) Tumori -2: nella perizia ho letto un accenno ai dati di incidenza dei tumori a Taranto: non essendoci il registro, penso a dati dalle SDO. E' corretto? Non mi pare che nella nostra comunità ci sia accordo sulla qualità (accuratezza e completezza) delle SDO e la possibilità di usarli come surrogato per le incidenze.
3.
Confondimento negativo da fumo di sigaretta
Lo spazio messo a disposizione consente di esprimere un parere solo sull’associazione tra inquinamento atmosferico da polveri sottili (PM10) di origine industriale e mortalità per specifiche cause nei quartieri di Taranto e nei Comuni vicini.
Le tabelle 9 e 10 della perizia Forastiere-Biggeri-Triassi (pp. 119-20) mostrano nei maschi e nelle femmine, rispettivamente, il rischio di mortalità per causa nelle aree ad alto inquinamento (Tamburi, Borgo, Paolo VI, Statte) rispetto all’area di riferimento (che includeva: Italia-Montegranaro, San Vito, Salinella, Solito, Talsano, Tre Carrare, Massafra). Le stime di rischio sono Hazard Ratio (HR) aggiustate per età, stato socioeconomico e, inaspettatamente, anche per esposizione a PM10 (p. 97).
Nelle stesse aree ho ricostruito il rischio di mortalità per malattie cardiache, respiratorie e cancro polmonare aggiustando per età e stato socioeconomico ma non per PM10.
A questo scopo ho rielaborato i dati riportati nell’Allegato 8 (tabella 1 e 2 (maschi) e tabella 5 e 6 (femmine), pp. 273-4 e 277-8). Questi sono tassi di mortalità standardizzati (metodo diretto per 100,000 ab.) per età e stato socioeconomico. Il tasso di ciascuna area inquinata è stato diviso per la media ponderata (pesi = popolazione) del tasso di mortalità dell’area di riferimento, ottenendo un rate ratio (RR) che si distingueva da HR per non essere aggiustato per PM10.
Se PM10 è un fattore di rischio, RR è maggiore di HR e il rapporto RR/HR è maggiore di 1. Invece RR/HR era: 0.78 per malattie respiratorie negli uomini del quartiere Tamburi; 0.81 per malattie cardiache nelle donne del quartiere Paolo VI; 0.72, 0.23, 0.43 e 0.39 per cancro polmonare nelle donne residenti a Borgo, Tamburi, Paolo VI e Statte, rispettivamente.
Possibili spiegazioni sono: effetto protettivo di PM10; errore; confondimento negativo da fumo di sigaretta. Secondo quest’ultima interpretazione molti soggetti (prevalentemente donne) sapendo di essere esposti a polveri avevano ridotto il consumo di tabacco. L’effetto è più marcato per il cancro polmonare perché è la malattia più fortemente associata con il fumo. La cessazione del fumo può contribuire a migliorare le condizioni di salute in quella zona.
In conclusione, la mancanza di informazioni sul fumo può aver falsato i risultati. La difficoltà di raccogliere queste informazioni poteva essere superata conducendo uno studio caso-controllo.
Dipartimento di Medicina Molecolare, Sezione di Medicina del Lavoro, Università di Padova
2.
Il primato della politica
Il primato della politica è per le persone della mia generazione un principio irrinunciabile; forse è per questo che la sua negazione da parte delle forze politiche e delle istituzioni dello Stato diventa insopportabile.
E’ quello che si sta verificando a Taranto, dove governo e partiti (ma anche i sindacati) levano la voce a sostenere che i magistrati debbano ispirarsi a criteri di opportunità, valutando i difficili equilibri tra istanze produttive, difesa del lavoro e tutela della salute.
Il primato della politica, troppo spesso confuso con la ragion di stato, consiste nel riconoscere ai rappresentanti politici e amministrativi il diritto e il mandato di assumere decisioni che riguardano l’intera collettività sulla scorta di criteri di opportunità, che includono criteri politici (rapporti sociali e istituzionali), economici (rapporti produzione - lavoro) e quelli relativi al bilancio tra costi e benefici di ciascuna scelta, e che richiedono spesso scelte di priorità, penalizzanti per l’uno o l’altro criterio.
Si ascoltano su Taranto echi antichi dove la confusione dei ruoli sottolinea penosamente la miseria della politica. Il piano di sviluppo non deve farlo la magistratura deve farlo il governo, è stato detto. D’accordo, tranne per il fatto che i sindacati ancora invocano un piano di sviluppo nel nostro paese, a volte esecrato dalla politica come una minaccia alla libertà delle imprese e alla libera concorrenza. Se questa è stata per lungo tempo la posizione di governi che non si sono assunti le loro responsabilità, oggi l’elemento di novità è che sono i politici a sollecitare i magistrati ad usare, nell’espletamento del proprio mandato istituzionale, non i criteri del diritto e l’osservanza del codice penale, ma piuttosto criteri di opportunità, squisitamente politici, che tengano conto delle necessità della produzione, della tutela dei posti di lavoro e di quelle folle di investitori esteri che si accalcano alle frontiere (mi sembra dal versante italiano, e non per l’intervento della magistratura).
Sorprende che tra le ragioni di opportunità invocate dalla politica, ci sia il richiamo alla magistratura a non perseguire la violazione delle leggi di tutela ambientale e di tutela della salute; eppure quelle leggi, tra cui la legge quadro di riforma sanitaria, sono state emanate dal nostro parlamento. Forse la politica vuole dire che alcune sue scelte, fatte in nome del primato della politica, sono meno importanti di altre ? che le si può non rispettare, perché la politica le ha fatte in nome di opportunità contingenti o perché vincolata dall’Europa? Questo atteggiamento rischia di delegittimare il primato della politica e di sconfinare nella difesa della ragion di stato.
Sorprende la posizione del governo, laddove avoca a sé, per un caso particolare, il potere di valutare l’operato dei magistrati e la possibilità di decidere se dal punto di vista tecnico gli impianti siderurgici possano sospendere la produzione; sembra questa una posizione ispirata dalla logica di “non disturbare il manovratore” e non da una visione complessiva del problema. Sorprende un governo che si faccia carico delle ragioni produttive e degli interessi di una azienda anziché promuovere lo sviluppo produttivo del paese.
Sorprende anche la posizione dei sindacati, che ancora non trovano proposte capaci di garantire l’occupazione e tutelare la salute sia degli operai sia dei residenti esposti a rischi industriali. Eppure le recenti modifiche alla legislazione che garantiva il sostegno pubblico per gli operai sospesi temporaneamente dal lavoro forse hanno un ruolo nelle tensioni sociali che si riaffacciano a Taranto
tra difesa del lavoro e tutela della salute.
Dovrebbe sorprendere anche l’assenza di un ruolo attivo e costante dei servizi sanitari deputati alla valutazione dei rischi derivanti dalle attività produttive e in generale dell’uomo, sia nei luoghi di lavoro che negli insediamenti residenziali. Questo ruolo è esistito in Italia, sia pur per breve periodo, in ottemperanza ai criteri fondanti della riforma sanitaria, ma è stato travolto da criteri di opportunità, troppo spesso condivisi dagli stessi tecnici.
Rimango ancora per il primato della politica, ma solo dove sia riconosciuto il ruolo indipendente della magistratura a reprimere i reati, anche nel caso che si compiano in nome di opportunità politiche, e dove sia garantito il ruolo di tecnici indipendenti che valutino gli effetti dei rischi ambientali e l’efficacia degli interventi finalizzati alla riduzione di quei rischi.
Annunziata Faustini
1.
Opportuno, utile, mi appare
Opportuno, utile, mi appare l’EPdiMezzo, agosto 2012, sulle “Indagini che hanno portato al sequestro da parte della magistratura degli impianti siderurgici dell'ILVA di Taranto per evitare che l'Azienda continui a perpetrare il reato ipotizzato di disastro ambientale”.
Ho appreso sull’argomento più di quanto in questi giorni mi abbia dato la lettura di tanti quotidiani. Come al solito concordo con Benedetto Terracini sia quando scrive su “La perizia epidemiologica è stata prudente, ma i risultati parlano chiaro”, sia su quanto da lui riportato, assieme ad altri, nel “Comunicato stampa degli epidemiologi sull’interpretazione della perizia epidemiologica data dal Ministro dell’ambiente Clini al Parlamento in data 1 agosto 2012”.
In particolare concordo con la sua linea di condotta che coincide con “l’elaborazione di un programma realistico di bonifica, compatibile con la conservazione dei posti di lavoro, attuabile con la massima rapidità e trasparenza”. A questa linea di condotta mi permetto di aggiungere un’appendice e cioè un impegno per evitare di intraprendere in via prioritaria un percorso lungo e complesso tendente principalmente al “ristoro” economico di “tutti” i danni alla salute dei lavoratori e delle loro famiglie, percorso quest’ultimo che potrebbe risultare alternativo, con i suoi risvolti tipicamente italiani di previdenza ed assistenza pubblici, alla realizzazione piena della bonifica ed anche alla ristrutturazione e riqualificazione della produzione dell’azienda.
Ho apprezzato molto lo sforzo che Maria Angela Vigotti ha messo in campo per trattare in maniera più obiettivamente possibile il tema assegnatogli sulla “Affidabilità delle perizie e comportamento dell’Azienda”. Seguendo le sue indicazioni ho anche ascoltato le “affermazioni sorprendenti” fatte tra gli altri dal consulente di parte (dell’azienda), Marcello Lotti nel corso del convegno celebrato a Taranto il 15/02/2012 al Relais Histò San Pietro sul Mar Piccolo (http://www.centrostudiilva.com/eventi/622/Terza_conversazione_su_salute_e_inquinamento.aspx#videoEvento[videoContainer]/3/). Di questa relazione non mi hanno tanto impressionato e preoccupato i tentativi, poco riusciti, di banalizzare, di allontanare più che di contrastare con dati originali i risultati che inevitabilmente avrebbero mostrato le “perizie” del GIP; infatti è noto che ognuno svolge il proprio compito come può, ed in certi casi, ossessivamente per soddisfare quelli che considera i desiderata o i bisogni del committente ed allora ci si può impegnare, magari solo in quella occasione, nel sostenere che i limiti ambientali sono fissati “con la pancia”, che è strano che lo stesso particolato agisca su malattie diverse, che non è credibile che i risultati dell’inquinamento siano sovrapponibili in tutte le latitudini, che gli inquinanti domestici sono equivalenti a quelli industriali, che i risultati osservati a Taranto non sono credibili perché indipendenti dalla dose di esposizione. E’ a proposito di quest’ultimo argomento, ben stigmatizzato tecnicamente da Maria Angela Vigotti, che l’autore per essere più convincente, invincibile, ricorre ad una sorta di “coup de théâtre” affermando che la regola di Chitarrella della tossicologia ce la ha data Paracelso 500 anni fa quando ha detto che è la dose che fa il veleno. Debbo riconoscere che (per mia abituale debolezza) è questa citazione nel contempo popolare e dotta che mi ha emozionato tanto da farmi reagire sia per onorare la memoria di Paracelso, e perché no di Chitarrella, che per dare su questi autori elementi di giudizio più completi ai lettori di “Epidemiologia e Prevenzione”.
Di Chitarrella, forse un prete napoletano, si sa solo che nel 1750 pubblica un trattato con il quale detta le regole (in precedenza alquanto aleatorie nella diverse realtà) con le quali si deve giocare a “Scopone”, a “Mediatore” ed a “Tresette”. Il suo, nel caso dello “Scopone”, è un vero “codice” che, a detta degli specialisti, pur non essendo il migliore possibile, ha il vantaggio di fissare 44 regole che tutti debbono rispettare se non si vuole essere indicati come scorretti o bari. Chitarrella oltre che richiamare il bisogno di regole certe (le sue) ha e mantiene tuttavia la nomea di “buontempone spregiudicato che dettando le regole del gioco del Mediatore consiglia: Se puoi guarda il monte e le carte degli altri, le tue a suo tempo (regola n. 39). La stessa raccomandazione è ribadita nella regola n. 28 del Tressette. Con la regola n. 40 del Mediatore però costui si pone decisamente tra i tipi coi quali non è preferibile giocare dal momento che consiglia, nel mescolare le carte, di far mazzone, di mettere cioè tutte le carte buone unite!” (G. Saracino Lo scopone scientifico con le regole di Chitarella, Mursia, Milano 2011).
Pur dovendo andare a ritroso il passo da Chitarrella a Paracelso non è lungo, almeno in certi ambienti e quando serve. Philippus Aureolus Theophrastus Bombastus von Hohenheim detto Paracelso (1493 – 1541) propone il famoso aforisma (non troppo originale, considerando che è utilizzato anche nell’antica Grecia ed in particolare da Platone) Omnia venenum sunt, nec veneno quicquam exist. Dosis sola facit ut venenum non sit nella terza delle sue Sieben Defensiones scritte nel 1538 (Theophrast von Hohenheim detto Paracelso, Contro i falsi medici, Sette autodifese, a cura di Massimo Luigi Bianchi, Editori Laterza, Roma Bari 1995) e, riferendosi al mercurio impiegato nella cura della lue, ci tiene a far sapere che lui, a differenza degli altri medici suoi accusatori, ha imparato con la pratica a stabilire, per ogni paziente, quando il mercurio da curativo diviene (anche) tossico. Quindi Paracelso introduce un altro concetto, quello di “correzione” dell’effetto venefico e dice “Concedo che il veleno sia veleno, ma che per questo debba essere rigettato non può essere. Dato che non vi è nulla che non sia veleno, perché correggete? Solo per questo, per evitare che il veleno faccia danni” e, rivolgendosi direttamente ai colleghi medici suoi concorrenti, “Infatti voi non conoscete la correzione del mercurio né la sua dose, ma sapete solo ungere finché è dato assorbire”. Paracelso, non potendo dare una più chiara spiegazione nel caso del mercurio (o volendo conservare un suo segreto lucroso), si fa meglio capire con un altro esempio: “Anche se una cosa è un veleno, può essere trasformata in ciò che veleno non è. Si prenda l’esempio dell’arsenico, che è il più potente dei veleni e di cui basta una dracma per ammazzare un cavallo. Se però lo arroventi con il salnitro, ecco che non è più un veleno. Se ne possono assumere dieci libbre senza danno.” (Il triossido di arsenico con l’ossidazione si trasforma in pentossido).
Con questa lettura Paracelso diventa meno banale e può portare a dire, se lo si vuole, che la prevenzione è cosa fattibile, purché non venga semplificata artificialmente e sia invece condotta coerentemente utilizzando ogni risorsa disponibile. Lo stesso orientamento potrebbero assumere tutti anche i periti di parte che invocano Paracelso come nume tutelare passando per Chitarrella.
F. Carnevale
5.
Sempre a proposito di peer review
Ho seguito con interesse la proposta di sottoporre a peer review le perizie, fermo restando la necessità della peer review per la pubblicazione delle stesse, la cosa mi lascia abbastanza perplesso. In particolare mi preoccupa il fatto che la peer review non ha tempi ed esiti certi e che quindi l'attesa possa essere di ostacolo alle eventuali azioni di messa in sicurezza che la magistratura debba intrapprendere. Altro e forse principale problema potrebbe essere il fatto che le osservazioni a posteriori, rese immediatamente pubbliche possano avere effetti pratici e mediatici incontrollabili. Le stesse osservazioni, in quanto tali, non sarebbero poi soggette a preventiva "peer review" e non controllate per gli eventuali inconfessati conflitti d'interesse.
Come suggerito in precedenza potrebbe in alternativa essere proposta per gli studi originali una peer review a priori dei protocolli dettagliati delle perizie in modo tale che vengano discussi ed accettati dalla comunità scientifica gli obiettivi e la metodologia degli stessi. In questo modo, se il protocollo sarà pienamente rispettato, non potrà essere contestata a posteriori la metodologia della perizia che nel frattempo sarà resa da subito più credibile e robusta.
Considerando il numero ridotto delle perizie che in un anno richiedono studi originali la stessa AIE potrebbe proporsi per organizzare il sistema di peer review e contemporaneamente potrebbe implementare un repertorio di disegni di studio qualificati da mettere a disposizione della comunità per essere riutilizzati con l'opportuna personalizzazione.
Mauro Mariottini