“Ro”, chi era costui? Nominava tra sé don Abbondio seduto sul suo seggiolone [...] tanto il pover uomo era lontano da prevedere che burrasca gli si addensasse sul capo!

Se fosse protagonista in questa epidemia da coronavirus invece che in quella della pesta manzoniana forse don Abbondio non si sarebbe chiesto chi fosse Carneade bensì che significasse l’R0!

Una sigla un tempo riservata agli infettivologi e confinata in qualche dotto tomo di Igiene è arrivato oggi alla ribalta e ha riempito giornali, televisioni, dibattiti e decreti governativi. Se ne è data una spiegazione ma non tutti l’hanno afferrata. Anch’io feci fatica a capirlo quando cercò di spiegarmelo mio padre che era professore incaricato di Malattie Infettive alla facoltà di Medicina e Chirurgia dell’Università degli Studi di Milano.

Si ritiene che fu l’epidemiologo George Mac Donald nel 1952 a proporre per primo questo indice in una epidemia di febbre malarica con l’articolo, Malaria in Britain, BMJ, vol.2, n.4775, 12 luglio 1952, pag 92 (www.bmj.com/content/2/4775/92.2.extract.jpg) e per una sua storia si può leggere l’articolo di J.A.P Heesterbeek, A brief history of R0 and a recipe for its calculation, in Acta Biotheorica, vol. 50, n.3, 2002, pp 189-204 (link.springer.com/article/10.1023/A:1016599411804).

“R” è un cosiddetto prefisso verbale iterativo che dà significato di ripetizione ad un evento: ri-fare significa fare nuovamente, ri-infettare significa infettare nuovamente; l’indice R è un indice usato per misurare quindi le capacità di ri-infettare di un agente patogeno.
Ma perché zero? e quindi perché R0? perché lo si si riferisce ad una situazione riferita al paziente zero, o se si preferisce al tempo zero dell’epidemia, quando non siano ancora intervenuta alcuna misura di contenimento e di contrasto dell’infezione.

Se un soggetto infettato viene introdotto in una generica collettività avrà la capacità di infettare un numero variabile di persone durante il suo periodo di infettività, e più alto sarà questo numero più contagioso si dovrà considerare l’agente patogeno. Quindi questo indice si calcola come rapporto tra il numero di soggetti che sono stati contagiati e il numero di soggetti contagianti che hanno diffuso l’infezione.

Se l’indice vale 1, significa che ogni infetto arriva a contagiare solo un altro soggetto e quindi l’epidemia si riproduce ma rimane costante come numero di soggetti, se invece l’indice è >1 allora l’epidemia si svilupperà esponenzialmente assumendo proprio l’R0 come parametro della funzione esponenziale, se invece è < 1 e continua ad esserlo allora l’epidemia tende ad esaurirsi e tanto più l’indice sarà basso tanto più veloce l’epidemia si esaurirà. Se poi l’indice diventasse addirittura pari a zero, allora vorrà dire che l’agente patogeno ha esaurito le sue capacità di infettare.

I nomi dati all’indice R0 sono diversi: “numero di riproduzione di base”, “numero di riproduzione netto”, “tasso di riproduzione virale”, ecc., però non dovrebbe essere usata l’espressione tasso in quanto, nella sua formulazione originale, l’ R0 non misura l’infettività nell’unità di tempo bensì il numero di soggetti che possono venir infettati da un solo individuo durante tutto il suo periodo di infezione.

Il valore dell’R0 è stato stimato per diverse epidemie e ad esempio è stato calcolato un valore tra 0,9 e 2,1 nelle epidemie influenzali stagionali, tra 1,4 e 2,8 nell’influenza spagnola del 1918, tra 3 e 5 nel vaiolo, tra 10 e 12 nella parotite, tra 12 e 18 nel morbillo, ecc.

Naturalmente il valore di R0 può dipendere da molti fattori e non solo dall’infettività propria dell’agente patogeno ed è per questo che ultimamente durante l’epidemia di coronavirus molti hanno preferito utilizzare l’espressione Rt, cioè l’indice di riproduzione al tempo t dipendente quindi dalle misure di contenimento adottate e spesso, a differenza dell’R0, l’Rt viene usato proprio come tasso di riproduzione, cioè come numero di soggetti contagiati da un soggetto infetto nell’unità di tempo.

Per calcolare in modo corretto l’R0 si dovrebbe invece considerare tutto il periodo in cui un infetto rimane contagioso e per lo meno dal momento dell’esordio della sintomatologia, informazione che spesso non è disponibile in quanto si conosce per lo più solo la data della sua notifica di positività all’autorità sanitaria. I metodi di calcolo seguiti sono poi abbastanza diversi anche se per lo più i risultati sono convergenti.

A seguito di tutte le considerazioni sin qui riportate, per valutare l’andamento dell’attuale epidemia di coronavirus abbiamo ritenuto opportuno mettere a punto una variazione dell’indice R0 che abbiamo chiamato RDt, cioè Indice di replicazione diagnostica a lag differenti. Questo indice permette di conoscere la percentuale di diagnosi di positività che vengono notificate dopo un certo intervallo di tempo (lag) dalle precedenti diagnosi già notificate. Questo indice quindi può considerarsi un tasso di replicazione basato sulle date di notifica e capace di individuare valori differenti tra gruppi di diagnosi.

Dato che si ipotizza che l’insorgenza media tra contagio e manifestazione della malattia passino dai quattro ai cinque giorni, si può ritenere che pur traslando in avanti di alcuni giorni questa durata corrisponda anche al tempo della notifica di un caso positivo e la notifica dei casi positivi da questo innescati, e perciò l’indice RDt , che può essere calcolato a vari lag, viene ora calcolato ai lag 3, 4, 5 , 6 ma volendo potrebbe naturalmente essere calcolato anche a lag differenti. Riteniamo comunque che sia più informativa questa soluzione piuttosto che calcolare un unico indice come media degli effetti di replicazione ad intervalli differenti come viene fatto da varie altre fonti.

Oltre ai problemi che derivano dall’uso della data di notifica invece che dalla data di insorgenza dei sintomi, è la ciclicità regionale dovuta alle giornate di minore o maggiore lavoro da parte dei laboratori che analizzano la positività dei tamponi.

Esaminando i dati di quasi due mesi e mezzo di epidemia da coronavirus per giorni della settimana è risultato che nei giorni di lunedì e martedì c’è stato meno del 15% dei casi giornalieri di notifiche e il sabato un incremento che ha superato il 15%. Per evitare che questa ciclicità, che non rappresenta l’andamento della epidemia, si preferisce calcolare le medie mobili a sette giorni dei dati giornalieri dei nuovi casi positivi notificati.

L’indice così costruito risulta il rapporto tra la somma delle frequenze degli ultimi sette giorni e la somma delle frequenze dei sette giorni precedenti considerati a diversi lag come qui descritto.

L’andamento dell’indice RDt dall’inizio della epidemia qui considerato come il 20 febbraio sino all’inizio della cosiddetta fase due dell’epidemia è il seguente:



Risulta molto evidente come l’espansione dell’epidemia si sia via via ridotta nel mese di marzo probabilmente grazie alle misure di lockdown per poi rimanere a livelli di RDt di poco inferiori ad 1 per tutto il mese di aprile come meglio evidenziato dal seguente grafico che considera solo questo periodo:



Si osserva una crescita dell’indice attorno alle giornate di sabato dell’ 11 e del 18 aprile in cui probabilmente si sono aggiunti i casi notificati provenienti dai focolai delle RSA.

Con il passaggio alla cosiddetta fase due dell’epidemia, questo indice RDt può efficacemente essere utilizzato per monitorarne l’andamento e per costruire un segnale di rischio laddove esso debba nuovamente raggiungere l’unità o superarla. Questa potrebbe essere la scala dell’allarme:



Speriamo che questa sia solo una scala teorica di allarme e confidiamo che i gradi superiori non debbano mai servire, ma se malauguratamente dovessero presentarsi sarà indispensabile adottare nuovamente tutte le misure di contenimento necessarie forse anche più rigide di quelle che abbiamo già dovuto accettare.

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