Che la spesa sanitaria debba essere contenuta con qualche tipo di manovra è ormai convinzione e impegno di tutti. Ma le ragioni, purtroppo, sono per lo più solo di ordine economico-finanziario: e sono quelle del contenimento della spesa pubblica per non dilatare o - meglio ancora - per ridurre, il prelievo fiscale. In  tal senso si guarda alla sanità solo come a uno dei settori su cui si ritiene sia ancora possibile intervenire con tagli finanziari.

La spesa sanitaria non è fuori controllo, ma...

Che la spesa sanitaria sia in Italia esageratamente elevata, come tutti ben sanno, non è assolutamente vero: è sui valori più bassi tra i paesi sviluppati e anzi è tra quelli in cui il rapporto spesa sanitaria privata su spesa sanitaria pubblica è più elevato. Non è neppur vero che sia una spesa “fuori controllo”, almeno l’80% delle prestazioni sanitarie infatti viene registrata nei minimi particolari e perciò sono controllate o per lo meno del tutto controllabili, e la crescita non è maggiore che nella media degli altri paesi dell’euro.

Il vero problema, però, è che si è per troppo tempo equivocato tra diritto alla salute e diritto al consumo sanitario; il cittadino infatti invece di ritenere che il diritto alla salute, sanzionato dalla carta costituzionale, consista nel poter avere un soddisfacente ascolto e una congrua soluzione ai propri bisogni di salute, pensa di avere comunque “diritto” a consumare tutte le prestazioni che vuole. E quindi il problema vero non è tanto l’eccesso di spesa quanto l’eccesso di consumismo, ed una riduzione non selettiva della spesa rischia di privare la popolazione delle cure essenziali.

Le ragioni dell'eccesso di consumismo

Ma come si origina questo equivoco al diritto al consumismo sanitario?

  1. Innanzitutto è la predisposizione culturale al problema che permette questo equivoco: i diritti ai consumi sono rari e se un settore li concede su quello si esercita una sorta di compensazione per tutti gli altri. D’altra parte siamo condizionati ad avere una modalità di accesso a qualsiasi “merce” esclusivamente consumistica, e la sanità non potrebbe far eccezione.
  2. In sanità, poi, ben si sa come i consumi siano incontenibili in quanto è più l’ansia che non la scienza ad indurre la richiesta di prestazioni, e quindi i consumi sono enormemente dilatabili senza che gli eventuali disincentivi riescano ad agire efficacemente (vedi i tichet regolatori che non funzionano). Per di più cresce l’incapacità a sopportare qualsiasi disturbo fisico anche minimo e cresce pure l’illusione che la medicina possa riuscire a tutto.
  3. In molti settori, vedi i farmaci ma anche la diagnostica ed altro, sicuramente vi è una pressione al consumo che è frutto di politiche aziendali che tendono a maggiori profitti. La sanità è vista come uno dei tanti settori produttivi per i quali lo sforzo del produttore va sempre verso l’aumento delle vendite e quindi dei consumi.
  4. Anche nel settore pubblico si è innescato un pericoloso equivoco secondo il quale un presidio è economicamente più efficiente solo se massimizza la produzione, e ciò induce necessariamente una automatica dilatazione dei consumi e quindi della spesa sanitaria.
  5. Infine gli operatori sanitari spesso si orientano sui maggiori consumi per soddisfare i loro clienti a cui non riescono a risolvere, in modo meno sbrigativo, i problemi che essi esprimono e che spesso sono di natura indistinta.

Tutto ciò può portare a ritenere equivocamente che vi sia un diritto ai consumi sanitari e poi, vuoi per uno sviluppo reale della sanità, che per politiche di marketing, le prestazioni offerte sono sempre più numerose e sempre più costose.

O meno diritti o meno consumi

A questo punto la situazione deve necessariamente invertirsi e la scelta è chiara: o meno diritti o meno consumi. La prima alternativa è di molto la più semplice ed è caldeggiata anche dal settore profit che intravvede nuovi mercati nei quali, data la inelasticità della domande, è possibile fare ottimi affari, anche in periodi di recessione. Conseguenza della riduzione dei diritti sarà un verticale aumento delle disequità e conseguentemente la crescita dei problemi di sanità pubblica che comporteranno a loro volta la necessità di interventi costosi, forse anche più gravosi degli scarsi risparmi effettuati.

La seconda alternativa è forse quella giusta ma anche di ben più difficile realizzazione: significa sviluppare la capacità di distinguere tra uso appropriato delle prestazioni e consumi inappropriati delle stesse. Nessuno potrebbe pensare di limitare la libertà di cura, ma è indispensabile negare la libertà di consumo: la distinzione sta nella capacità della prestazione di dare una risposta efficace al problema di salute. I dubbi in medicina, sia nella pratica diagnostica sia in quella terapeutica, sono molti e devono essere rispettati, ma molte sono anche le certezze e tra queste ben si sa ad esempio quanti esami diagnostici vengono richiesti inutilmente, quante prestazioni terapeutiche vengono prescritte senza necessità vere.

La soluzione: una vera politica di salute

Per risolvere questa situazione occorrono diversi elementi:

  1. che si voglia perseguire una vera politica di salute senza slittare in pericolose scorciatoie inutili, spesso dannose, e sicuramente vissute dalla popolazione come vessatorie,
  2. che gli operatori accettino di mettere in pratica le regole dell’appropriatezza ed accettino di sviluppare la propria formazione sui questi obiettivi,
  3. che il settore profit, e per emulazione anche il settore no profit, vengano costretti ad astenersi da un marketing aggressivo e contrario all’appropriatezza, più orientato alla dilatazione dei consumi che alla soluzione dei bisogni,
  4. che ci sia una campagna informativa efficace che spieghi alla popolazione come la razionalizzazione dei consumi sia un vantaggio anche per loro in termini di mantenimento dei diritti e di riduzione dei rischi iatrogeni.

Operativamente sarebbe sufficiente valorizzare l’obbligo di esplicitare sempre, all’atto delle prescrizioni, la ragione clinica delle stesse e che queste informazioni fossero poi controllate e valutate almeno a campione. E poi che venissero esplicitate meglio le linee guida, sì con il consenso degli operatori stessi, ma anche con l’obbligo per loro di adeguarvisi. Scegliere secondo scienza e coscienza non significa prescrivere senza limiti e senza criteri. E infine che l’informazione sulla opportunità di limitare i consumi a quelli corretti e appropriati sia una informazione efficace, che utilizzi al meglio tutti i media e che non sia boicottata da chi invece ha interesse a mantenere alti i consumi anche se inappropriati.

Negare operativamente il diritto al consumismo è l’unica via democratica per garantire la sostenibilità del diritto alla salute! Si evitino invece le scorciatoie che rischiano di produrre disequità e di dilatare, invece che risolvere, i problemi della sanità pubblica.

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